Contro il titolo della prevaricazione
Un incessante cammino di verità
Se intendiamo la nonviolenza come una continua ricerca della verità, allora dobbiamo concludere che questa ricerca non ha fine. Come avviene per la conoscenza scientifica, anche nel caso della nonviolenza procediamo per «prove ed errori», imparando dall’esperienza.
Da Buddha a Gesù Cristo, a Gandhi, si può intravedere, a grandi linee, una continuità nella ricerca della nonviolenza intesa come stile di vita, risposta esistenziale, pratica politica. Essi hanno seminato e molti/e altri/e ne hanno seguito gli insegnamenti e approfondito la ricerca. È un patrimonio di cultura e di esperienza che si è andato accumulando e costituisce l’eredità storica della nonviolenza, senza la quale oggi ci troveremmo ancora più smarriti di quanto non siamo.
Lo stretto varco della storia
Ma non possediamo certezze definitive. Non sappiamo se l’umanità riuscirà a superare le difficoltà enormi in cui si trova. Come amava dire Aldo Capitini, il padre della nonviolenza italiana e fondatore del Movimento Nonviolento, «la nonviolenza è il varco attuale della storia». Ma è un varco stretto, che sinora non siamo stati capaci di attraversare. Un varco simile alla cruna di un ago nella quale, come ci ricorda il messaggio evangelico «è più facile che passi un cammello… piuttosto che un ricco entri nel Regno dei Cieli». Ma oggi questo ammonimento suona come un’eresia. Il modello di vita che ci viene proposto continuamente è ben altro.
Eppure, sulla carta tutto sembrerebbe funzionare. I messaggi di compassionevolezza, amore, interdipendenza, impermanenza, consapevolezza, compresenza, sobrietà, semplicità sono comuni a tutte le principali tradizioni religiose, ma contrastano enormemente con quanto vediamo intorno a noi. I mali che Martin Luther King denunciava e combatteva con vigore sono tuttora presenti e in alcuni casi si sono addirittura aggravati: nazionalismo, razzismo, militarismo, miseria estrema. A essi si è aggiunta una crisi ecologica di portata globale: danziamo allegramente sul Titanic che sta affondando, divertendoci da… morire!
Il contrasto è reso ancora più acuto se pensiamo al grande potenziale umano che il meglio della cultura tecnoscientifica ci mette a disposizione, ma che non sappiamo utilizzare in modo costruttivo e creativo.
I cigni neri: positivi e negativi
Ma la storia dell’umanità è imprevedibile, ricca di sorprese, di eventi positivi e negativi: sono quelli che, con una splendida metafora, Nassim Nicholas Taleb chiama i «cigni neri» (Il cigno nero. Come l’imprevedibile governa la nostra vita, Il Saggiatore, Milano 2008). Sta a noi essere preparati per cogliere al momento opportuno, quando meno ce lo aspettiamo, i «cigni neri» positivi (i Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela, Aung San Suu Kyi, tanti/e altri/e, lo straordinario 9 novembre 1989 in Europa) e altrettanto preparati per affrontare quelli negativi (gli Hitler, l’11 settembre 2001 negli USA), senza disperare. I tiranni muoiono, come tutti gli altri esseri umani, e gli imperi cadono, mentre resta la nonviolenza. È il faro per continuare a navigare e progredire verso qualcosa che ancora non conosciamo ma che intravediamo, verso una aspirazione profonda per una vita più piena, ricca di significato, armoniosa, felice.
Che cosa resta, che cosa ricordiamo? Di positivo: la fine della guerra fredda senza sparare un solo colpo di fucile, la sconfitta della schiavitù, il grande movimento di emancipazione e liberazione delle donne, le lotte di liberazione nonviolente (dall’India agli USA, dal Sudafrica alle Filippine), i «giusti» che hanno saputo resistere alla shoah, la dichiarazione universale dei diritti umani, i movimenti ecologisti che ci esortano a mettere in pratica il monito di Gandhi: «La Terra ha risorse sufficienti per i bisogni di tutti, ma non per l’avidità di pochi». Di negativo: la lunga sequela di guerre e genocidi, che dobbiamo ricordare per partecipare empaticamente al dolore e alla sofferenza delle vittime, riconoscere la comune umanità, avviare processi di conciliazione e riconciliazione.
Ma oggi la nonviolenza non è solo speranza e memoria. Grazie all’incessante lavoro di ricercatori, attivisti, educatori, possediamo un patrimonio di conoscenze che ci permettono di presentare la nonviolenza come la scienza e l’arte della trasformazione creativa, costruttiva, non distruttiva, dei conflitti dal micro al macro (Johan Galtung, Affrontare il conflitto, PLUS edizioni, Pisa 2008).
L’agenda della pace
Vista in questa prospettiva, l’agenda dei movimenti per la pace e dei movimenti più specificamente nonviolenti è quanto mai fitta, aperta su tutte le diverse tipologie di conflitto e sulle tre dimensioni della ricerca, dell’educazione e dell’azione.
Ricerca: abbiamo appena cominciato a introdurre nel nostro mondo accademico corsi di laurea e di specializzazione sui temi della pace e della trasformazione nonviolenta dei conflitti. Scontiamo un ritardo incredibile e ci stiamo faticosamente confrontando con i retaggi di una cultura che non riesce a vedere oltre un «realismo politico» miope e foriero di sventure. Ma la ricerca riguarda ciascuno/a di noi, senza esclusione e investe in pieno le tradizioni religiose, che debbono non solo riscoprire ma rifondare le proprie teologie sulla cultura della nonviolenza.
Educazione: sebbene quello che si sta per concludere sia stato designato dalle Nazioni Unite come «decennio dell’educazione alla nonviolenza per i bambini e le bambine del mondo», questa proposta è stata accolta con freddezza e disinteresse e solo con fatica alcuni movimenti si stanno impegnando per diffondere capillarmente pratiche ed esperienze di educazione alla pace e alla trasformazione nonviolenta dei conflitti. Stiamo sprecando e distruggendo l’enorme potenziale umano costituito dai bambini e dalle bambine del mondo, che sottoponiamo quotidianamente al bombardamento intensivo di messaggi violenti attraverso la pubblicità che propone stili di vita banalmente consumistici e programmi televisivi dove impera la violenza, senza alcuna alternativa.
Azione: Gandhi ci ha insegnato che ci sono momenti in cui il richiamo alla ragione non è sufficiente. Di fronte alla violenza occorre agire, resistere con la nonviolenza del forte, pagando il prezzo che questo comporta, senza nascondere la testa nella sabbia. L’azione collettiva dei movimenti è oscillatoria, come un pendolo, con alti e bassi. Si passa dalle grandiose e straordinarie manifestazioni di protesta contro la guerra, capaci di coinvolgere decine di milioni di persone, alla rassegnazione dettata dalla sfiducia e dalla disperazione.
Un compito difficile
Abbiamo democrazie fragili, che si piegano al potere di oligarchie, e il compito è immenso. Ma ancora una volta possiamo imparare da coloro che ci hanno aperto la strada con il loro esempio e il loro sacrificio: Franz Jagerstatter contro il nazismo, Rachel Corrie in difesa del popolo palestinese, i fratelli Berrigan contro la minaccia delle armi nucleari, i refusnik israeliani contro l’illegalità della guerra in Palestina e in Libano, gli obiettori militari statunitensi (come il luogotenente Ehren Watada) contro l’illegale guerra in Iraq, Pietro Pinna che ha avviato la lunga lotta per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza in Italia, i Corpi Civili di Pace che operano in zone di conflitto armato e anticipano profeticamente la possibilità di realizzare forme di intervento nonviolento e di difesa popolare nonviolenta.
Il nostro compito è reso più difficile, in questo periodo, perché viviamo in condizioni di anestetizzazione delle coscienze, ottenuta attraverso il complesso militare-industriale-petrolifero-mediatico che ha creato il «grande divertimentificio» contro il quale ci mise in guardia, con lungimiranza, don Milani. Questa condizione esistenziale genera in molti una sensazione di sfiducia, di abbandono, di impotenza, contro la quale occorre reagire proponendo un programma in positivo, capace di cogliere ciò che di bello, creativo, stimolante c’è, nonostante le apparenze contrarie, in questo nostro mondo che si va rimpicciolendo grazie al potere delle tecnologie della comunicazione.
Progettare la transizione verso società nonviolente, ecologicamente sostenibili, non è solo il «nuovo sogno» che si richiama alle «ceneri di Gandhi e di Luther King», ma una possibilità e una necessità concrete. Ne abbiamo tutte le possibilità e le capacità, purché si uniscano le forze, le intelligenze, le risorse.
Giovanni (Nanni) Salio
Segretario dell’Ipri (Italian Peace Research Institute),
CCP (Corpi Civili di Pace), si occupa da decenni di ricerca,
educazione e azione per la pace.
Fondatore e presidente del Centro studi
«Domenico Sereno Regis» di Torino,
dotato di ricca biblioteca ed emeroteca
specializzate su pace, ambiente, sviluppo.
Autore di numerose opere di orientamento
nonviolento sui medesimi temi.