Nonviolenza, dall’Italia un muro di indifferenza

di Pinna Pietro, Valpiana Mao

Pietro Pinna intervistato da Mao Valpiana

… allora parliamo un po’ di nonviolenza?…

Per parlare con profitto occorre avere ben chiaro e distinto il significato delle parole su cui si discute. Non esiste – è vero – una definizione «ufficiale», dogmatica, della nonviolenza, ma possiamo verosimilmente dedurla dai suoi massimi fautori teorici e pratici – Gandhi, Capitini, M.L. King, Lanza del Vasto e altri – così da poterne enucleare gli elementi distintivi essenziali nella seguente formulazione: la nonviolenza è una dottrina etico-politica caratterizzata da una concezione generale della vita (l’unità amorevole di tutti gli esseri), una originale filosofia dei conflitti (creativa e non distruttiva), e un peculiare metodo di azione così articolato in punti interconnessi e concomitanti:

1. rifiuto assoluto dell’uccisione e di ogni altra grave violenza fisica e psichica;
2. rispetto della verità;
3. autosacrificio;
4. disponibilità al compromesso su questioni non di principio;
5. gradualità nell’impiego dei mezzi di azione;
6. programma costruttivo.

Così precisata, la nonviolenza risulta ben distinta dall’uso disinvolto del termine che, al più, viene ristretto a uno soltanto degli elementi caratterizzanti la nonviolenza, ossia l’astensione dalla violenza omicida. Una posizione pertanto che sarebbe ben più appropriato chiamare con il termine di a-violenza, pur questa relativa, condizionata, da sospendere per la violenza «a fin di bene», vale a dire allorquando siano messi in discussione i propri particolari interessi: la propria sicurezza blindata, il proprio pingue benessere, i propri privilegi consolidati, la propria superiore religione dotata di verità assoluta, a tutela dei quali interessi è lecito allora porre mano alla violenza, fino alla bomba atomica.

Come e perché è nata l’esigenza di una opposizione/proposta nonviolenta in Italia?

Di una proposta e opposizione ispirata alla nonviolenza – in un’Italia fino a quel momento ignorante o avversa a quell’idea – fu promulgatore e attuatore Aldo Capitini sin dagli anni trenta del secolo scorso.

Ispirata da una personale concezione religiosa tesa alla liberazione dalle tante angustie individuali e sociali, e di cui la nonviolenza costituisce lo strumento di attuazione, l’opera di Capitini fu sospinta in prima istanza dall’urgente necessità di contrastare l’imperante regime fascista.

Ne dette pratica testimonianza accettando di perdere il proprio posto di segretario-economo alla Scuola Superiore Normale di Pisa a seguito del suo rifiuto di iscriversi al partito fascista (in attuazione così di un principio fondamentale della nonviolenza, la noncollaborazione con il male).

Ma la sua proposta di opposizione nonviolenta al fascismo non trovò alcun seguito nel generale fronte di opposizione alla dittatura, indirizzato invece a combatterla con qualsiasi mezzo, fino alla violenza armata. Talché Capitini, quanto all’esito finale della propria opera in quegli anni, viene a dire: «Certo, io ero sconfitto, non essendo stato capace soprattutto di costituire gruppi di nonviolenti con i pochi amici sparsi, nulla sapendo organizzare che fosse visibilmente coerente, efficiente e conseguente a idee nonviolente».

In quale realtà si è sviluppata la nonviolenza italiana negli ultimi 50 anni?

Nei decenni intervenuti dalla caduta del fascismo, la realtà complessiva italiana, vòlta più alla restaurazione di cose vecchie che a una decisa liberazione, è stata dominata dall’interesse materialistico e settario. In questa chiusura la nonviolenza, che è apertura (ossia interesse, appassionamento, amore) all’esistenza, alla libertà e allo sviluppo nel bene di ogni essere, trovò un muro di indifferenza, d’incomprensione, di ripulsa, di avversione in ogni àmbito e aspetto della società.

Nonostante ciò la nonviolenza riuscì a far breccia in quel muro.

A focalizzarne l’attenzione fu il presentarsi nel nostro paese, poco dopo la fine della guerra, del fenomeno di giovani reclute che rifiutavano di prestare il servizio dell’uccisione militare (i cosiddetti obiettori di coscienza) e sottoposti perciò a pene carcerarie.

Un altro rilevante avvenimento che favorì la pubblicizzazione della nonviolenza fu l’effettuazione, nel 1961, della Marcia per la pace Perugia-Assisi, promossa da Aldo Capitini, con una larga partecipazione di forze politiche e culturali diverse e che fornì l’occasione «di parlare di nonviolenza ai «violenti»».

Tanto altro lavoro dai nonviolenti venne intrapreso – manifestazioni di piazza, convegni nazionali, pubblicazioni – al fine di presentare e divulgare l’idea nonviolenta; e pure interventi esterni all’area nonviolenta – La Pira, don Milani, padre Balducci – servirono a suscitare l’attenzione intorno a quell’idea, tanto che ora essa ha acquistato perlomeno cittadinanza presso i più diversi settori della pubblica opinione.

Dopo tanti anni di lavoro, c’è qualche risultato raggiunto?

È in questo risultato culturale (non ne so dire di pratici) che va ravvisato il più significativo acquisto dell’attività nonviolenta in Italia. Ho detto «acquisto di cittadinanza dell’idea nonviolenta», ma nient’affatto condivisione e assunzione nella mentalità e prassi dominanti. Vediamo un aspetto centrale dell’orientamento nonviolento, corrispondente all’inderogabile necessità da tutti conclamata dell’abolizione della guerra nei conflitti umani. Partiti, movimenti, sindacati, intellettuali, chiesa cattolica, cittadini comuni: di tutti è la quotidiana affermazione del proprio aborrimento della guerra e della propria determinazione a opporvisi.

Ma di fatto, in una contraddizione flagrante, ne apprestiamo gelosamente il suo essenziale strumento portante, l’esercito, alla cui sempre maggiore efficienza distruttiva siamo proni a destinare ogni possibile risorsa. Dal che la guerra, come sempre è stato, continua e continuerà a essere.

In questa situazione sconfortante, qual è il compito dei nonviolenti?

In tale situazione la nonviolenza è confinata a costituire un’infima irrisoria minoranza, capace di fare al più opera di testimonianza ideale ma non di azione sociale e politica.

Ma è in quest’opera, invero, che gli esigui gruppetti nonviolenti ora in essere – «Centri di fede e di lavoro», li chiamerebbe Capitini – debbono far consistere la loro funzione primaria, ponendo quel chiarimento indispensabile a dissipare l’equivoco verbale (e quindi concettuale e politico) dell’onnicomprensivo fronte del pacifismo condizionato – dei vertici dominanti e della base subalterna – che nell’uso improprio che fanno della parola nonviolenza, la riducono di fatto alla posizione negativa e inerte della semplice a-violenza, così oscurando e prosciugando il campo del vero significato e portata dell’idea nonviolenta. In quest’opera di chiarificazione intellettuale – insisto a dire – va ravvisato ancor oggi il compito essenziale dei nonviolenti, a cui essi debbono dedicare tutte le loro energie disponibili, sgombri dall’assillo di correr dietro illusoriamente a iniziative più visibili e quanto si voglia più «concrete».

Come e dove potrebbe rinascere, o nascere, oggi la nonviolenza?

Per il pratico avanzamento dell’idea nonviolenta ovviamente nessuna presunzione e nessuna fretta. Al momento non vi è che da poggiare su un dato meramente ideale, potenziale e non anche politico: il dato che sta nell’intimo della coscienza dell’immensa maggioranza dell’umanità di oggi, quella coscienza che avverte un preminente bisogno, che è in angosciante attesa di uscire definitivamente dall’intollerabile processo sanguinoso, devastante, disumanizzante e corruttore che comporta la preparazione e la esecuzione della violenza bellica. A sorreggere e invigorire l’impegno del singolo nonviolento può valere ancora una volta una frase di Aldo Capitini: «Se è vero che gli uomini siano diversamente appassionati e interessati, può anche darsi che nel loro cuore ci sia un senso universale di gratitudine e poi anche di partecipazione per chi agisce nel modo più puro e più nonviolento superando qualsiasi schieramento, in attuazione e al servizio del bene primario della pace».

Pietro Pinna, obiettore di coscienza nel 1948,
ha mantenuto da allora l’impegno, profuso con generosità,
affrontando molte difficoltà per il riconoscimento
e la valorizzazione dell’obiezione e la costruzione
di un movimento nonviolento in Italia.
Ha lavorato a ciò in stretta collaborazione con Aldo Capitini,
proseguendone l’attività dopo la scomparsa.

L’intervista è realizzata da Massimo (Mao) Valpiana,
che succede a Pinna come Direttore di Azione nonviolenta
e segretario del Coordinamento nazionale
del Movimento Nonviolento.