Il diritto all’istruzione e la complessità come scelta consapevole
Il diritto all’istruzione: un’intrinseca complessità
Esiste, nella nostra Costituzione, una disposizione che espressamente si occupi della definizione del diritto all’istruzione? Una risposta secca esige una constatazione semplicemente negativa: questa disposizione non esiste.
È vero che, da un lato, esiste l’affermazione dell’obbligatorietà di un determinato tipo di istruzione e del suo carattere gratuito, così come esiste anche l’affermazione del diritto allo studio quale garanzia della possibilità di accesso all’istruzione (artt. 33 e 34 Cost.); dall’altro lato, però, è altrettanto vero che non ci sono espresse definizioni del contenuto dell’istruzione.
Ciò nonostante, non v’è dubbio, tra gli interpreti, che il diritto all’istruzione si qualifichi per il suo intrinseco carattere relazionale, ossia per il fatto che esso si correla indissolubilmente alla libertà di insegnamento e al suo esplicito riconoscimento.
Per un verso, si dice che la libertà di insegnamento è prerogativa insopprimibile, legata al postulato altrettanto insopprimibile della libertà dell’arte e della scienza (art. 33, comma 1, Cost.), oltre che manifestazione speciale della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.); per altro verso, però, si chiarisce che la libertà di insegnamento non assume significato in sé e per sé, bensì soltanto nella sua natura intrinsecamente funzionale, ossia soltanto in quanto strumentale alla garanzia del diritto all’istruzione, il quale, a sua volta, viene soddisfatto soltanto nella misura in cui se ne riconosca la natura originariamente complessa e condivisa, il suo carattere, cioè, strettamente dipendente dall’attività dell’insegnamento e dai risultati della stessa.
Di più: anche lo stesso insegnamento, in qualche modo, è ripartito. Anche i genitori, infatti, hanno il diritto-dovere di istruire i figli (art. 30, comma 1, Cost.). E può essere, poi, che gli insegnamenti siano a loro volta organizzati in scuole dalla diversa gestione, pubblica o privata, le quali possono essere divise e indipendenti l’una dall’altra ovvero coordinate tra loro in un unico sistema, quello che la Repubblica italiana si obbliga a costituire per prestare il servizio di cui il diritto all’istruzione abbisogna in quanto diritto sociale.
Come è facile constatare, l’assenza di una disposizione espressa tradisce sorprendentemente l’esistenza di una fitta trama di rapporti e di relazioni tra diritti e libertà che la Costituzione riconosce e promuove, facendo, in tal modo, della complessità e del pluralismo un carattere pressoché indisponibile (irrinunciabile) della disciplina giuridica fondamentale dell’istruzione.
L’autonomia scolastica: la complessità come risorsa
Nella disciplina dell’istruzione, la complessità e il pluralismo trovano un diretto riferimento organizzativo nel riconoscimento e nella garanzia dell’autonomia scolastica (art. 117, comma 3, Cost.).
La scuola, in altri termini, è autonoma per la ragione che tale è il modello gestionale che le consente di esprimere consapevolmente il proprio progetto formativo, muovendo dall’acquisizione che i veri protagonisti dell’istruzione sono proprio i soggetti titolari dei diritti e delle libertà sopra ricordati. Il libero dispiegarsi, in forma collaborativa, dei loro reciproci rapporti è funzionale alla concreta definizione del servizio di istruzione e alla materiale soddisfazione del correlato diritto sociale, in un sistema inevitabilmente policentrico e, per l’appunto, a sua volta complesso.
Lo Stato, certo, deve definire «i livelli essenziali delle prestazioni» nelle quali la soddisfazione di simile diritto si risolve uniformemente su tutto il territorio della Repubblica, spettando allo stesso di fissare anche le «norme generali sull’istruzione», ossia i principali assetti procedimentali e organizzativi del sistema dell’istruzione pubblica, per garantire, così, parità e omogeneità di standard di accesso al servizio e di requisiti strutturali minimi per ogni scuola, pubblica o privata, che voglia porsi come terminale di un sistema articolato ma integrato. Inoltre, le Regioni hanno il potere di organizzare la rete scolastica e di dettare, e al di là dei livelli essenziali fissati dallo Stato, prescrizioni concernenti obiettivi formativi di portata territoriale.
Tuttavia, le «determinazioni autonome delle istituzioni scolastiche» (così definite dalla Corte costituzionale) costituiscono fonti ultime e irrinunciabili della disciplina del diritto dell’istruzione, poiché, nel sistema complesso e policentrico di cui si è detto, esse si pongono a soluzione sintetica e condivisa dei rapporti, inevitabilmente indisponibili (irrinunciabili) e riservati, tra i docenti, gli studenti e le loro famiglie.
Nell’autonomia scolastica, quindi, la complessità si presenta come risorsa, foriera di conseguenti e coerenti scelte istituzionali: ogni declinazione di questo modello organizzativo (autonomia didattica, autonomia finanziaria, autonomia amministrativa, autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo) ha un senso soltanto nella prospettiva della migliore valorizzazione di questa risorsa, ossia soltanto nella direzione della ricerca costante di un equilibrio sempre rinnovato e sempre perfettibile tra libertà di insegnamento, diritto dovere di educare e di istruire i propri figli, dirittodovere di istruzione.
La complessità come soluzione generale
La complessità della disciplina giuridica dell’istruzione, peraltro, non si ferma al mondo della scuola in senso stretto.
L’impostazione vigente dell’ordinamento scolastico italiano ha massimizzato l’attitudine, già di per sé policentrica, dell’espressione trasversale del diritto all’istruzione, favorendone la comunicazione, per certi versi quasi naturale e spontanea, con la realizzazione di altre politiche pubbliche con esse connesse, in particolare con le politiche della formazione professionale e del lavoro.
È noto, del resto, che di obbligo scolastico non si discute più, preferendosi declinare la formula dell’obbligo formativo e promuovendo così nell’ambito dell’azione educativa giuridicamente rilevante anche la formazione professionale e ogni connessa possibilità di transito reciproco tra il mondo della scuola e i processi di specializzazione e di inserimento lavorativi.
Anche in questo caso, però, occorre evidenziare un dato sintomatico: si tratta di scelte politico-legislative quasi obbligate, soprattutto nel contesto delle politiche sopranazionali (europee) circa il raggiungimento diffuso dell’ambizioso ma ineludibile obiettivo, posto con la ben nota «strategia di Lisbona», della società fondata sulla conoscenza (quale necessario presupposto di qualsiasi politica di coesione sociale e di competitività economica).
Anche il legislatore italiano, in altri termini, abbandona, in materia di istruzione, la tradizionale ricerca di un’esclusività tipicamente nazionale per accettare il confronto con la misura di risultati oggettivamente verificabili che la complessità globale impone a ogni legislatore responsabile.