Preghiera

di Locci Adolfo, Finti Meriem, Di Donna Gianandrea

Nella Torà

Nel libro di Samuele (I Samuele 2, 25) è scritto: «Se un uomo pecca contro un altro uomo, il Signore lo giudica (Pilelò); ma se pecca contro l’Eterno, chi si interporrà (Itpalel) per lui?».

Nello scritto citato, i due verbi indicano due prospettive: il primo, in forma semplice, significa «mettere in discussione», il secondo, in forma riflessiva, vuol dire «intercessione». Le due prospettive non sono necessariamente in antitesi e possono rappresentare due momenti legati a un unico atto.

In un Salmo (Salmi 106, 30) si fa cenno a un episodio del Pentateuco (Numeri cap. 14): «Fineas si levò e fece giustizia (Vaipalel) e il flagello fu arrestato».

Secondo l’interpretazione letterale, il verso indica che un atto di giustizia (Fineas punì i responsabili della calamità che ricadde su tutto il popolo) pose fine alla pestilenza. Un commento talmudico, invece, ritiene che il sacerdote «discusse con Dio» e si interpose tra il Signore e il popolo fino a che non ottenne l’interruzione dell’epidemia mortale. Questa è l’espressione del riconoscimento di Dio come giudice del mondo, della fiducia che dobbiamo riporre in Lui in quanto misericordioso e buono.

Importanti personaggi del passato non si sono accontentati dell’aspetto liturgico della preghiera e hanno dibattuto con l’Eterno sul destino, da Lui decretato, per gli uomini.

Abramo reagisce in modo deciso alla notizia della distruzione di Sodoma e Gomorra (Genesi 18, 22-25): «E quegli uomini, partiti di là, s’avviarono verso Sodoma; ma Abramo rimase ancora davanti all’Eterno, si avvicinò e disse: «Davvero farai perire il giusto insieme con l’empio? Forse ci sono cinquanta giusti nella città; …il Giudice di tutta la terra non farà giustizia?»». Abramo si erge a difensore degli abitanti di Sodoma e Gomorra e mette in discussione la giustizia divina.

Mosé, per ottenere il perdono divino per la colpa del vitello d’oro, si permette di dire al Signore che gli egiziani avrebbero pensato che la grande liberazione dall’Egitto era stata operata solo per distruggere un popolo nel deserto.

La preghiera, come intercessione, fa alzare il Signore dal trono del giudizio e Lo fa sedere sul trono della misericordia.

La grandezza di Abramo e Mosè consiste nel fatto che non hanno discusso per un beneficio personale ma, al contrario, per la salvezza del prossimo. Infatti, quando il Signore chiede ad Abramo il sacrificio del figlio, il patriarca non polemizza; quando a Mosè viene precluso l’ingresso nella Terra promessa, il profeta accetta il volere divino senza fare obiezioni.

La parola ebraica Tefillà, normalmente tradotta in italiano con preghiera, è legata alla radice del verbo Pilel, che vuol dire giudicare, dibattere, discutere. In un’epoca in cui il Signore sembra operare nel «nascondimento del Suo volto», non «possiamo» discutere con Lui (Pilelim) ma Lo «dobbiamo» pregare (Mitpalelim). In altre parole, ci rivolgiamo al Signore e chiediamo la Sua benignità per ciò di cui abbiamo bisogno, senza discutere il Suo metro di giudizio.

L’osservanza dei precetti ha lo scopo di renderci consci della presenza di Dio e di farci vivere in una dimensione sacra; la preghiera è uno dei doveri quotidiani destinati a farci raggiungere il «luogo dell’incontro» tra l’umano e il divino.

Adolfo Locci

Nel Corano

In un detto del profeta Muhammad a noi tramandato leggiamo: «Il rito d’adorazione è il meglio di tutto ciò che Allah ha comandato».

La preghiera è la colonna portante dell’Islam; senza la preghiera, la fede di un musulmano non sta in piedi, come non starebbe in piedi un uomo senza spina dorsale.

Gli adempimenti quotidiani sono cinque, quindi cinque volte al giorno il fedele si presenta con umiltà e concentrazione davanti al suo Signore. La frequenza e l’ora delle orazioni obbligatorie hanno lo scopo di non far mai dimenticare qual è l’oggetto e la missione della nostra vita nel turbine delle attività di questo mondo.

In questo arco di tempo, per l’orante esistono solo lui e l’Adorato, quello è un momento privato da vivere col massimo della concentrazione e serenità, aggiungendo anche un senso d’intimità: parlo col mio Dio, mi confesso, chiedo perdono per i peccati commessi, lo ringrazio per ciò che mi ha concesso.

Il mondo esterno diventa frivolo, quasi inesistente. A conferma di tutto questo ci viene tramandato che il profeta Muhammad (pace e benedizione su di Lui) disse: «Il momento in cui il servo si trova più vicino al suo Signore è quello in cui ha la fronte per terra prostrato in adorazione».

Con l’adorazione quotidiana si costituisce una protezione dall’immoralità e dalla trasgressione e con essa ci si arricchisce internamente, quindi oltre a essere dinamica, essendo utile al fisico, lo è anche per lo spirito. È facile comprendere che le orazioni obbligatorie quotidiane fortificano le basi della fede, preparano a condurre una vita virtuosa e di obbedienza ad Allah e ravvivano una fede da cui nascono coraggio, sincerità, riflessione, purezza del cuore e dell’anima.

Armonia, equilibrio, pace e conforto sono le sensazioni che si hanno dopo ogni preghiera. Cosa fa recitare l’orazione anche quando si è sicuri che nessuno ci vede e osserva? Che cosa fa abbreviare il sonno di ogni credente per eseguirla?

Cosa fa lasciare gli affari importanti e le occupazioni della vita quotidiana? Perché si ha paura di commettere qualsiasi errore durante la preghiera? Semplicemente la convinzione che Allah ci osserva in qualsiasi momento della vita, un senso del dovere molto accentuato, la coscienza di dover assumere, costi quel che costi, la responsabilità di mantenere fede al patto davanti al nostro Signore.

Eseguire le orazioni in gruppo, in special modo l’orazione congregazionale del venerdì, è un fatto molto importante in quanto crea tra i fedeli un legame di solidarietà e di comprensione reciproca, si inculca in loro un profondo sentimento di fratellanza, uguaglianza, perché il ricco e il povero, il potente e l’umile, i dirigenti e i dipendenti, i dotti e gli illetterati, i neri e i bianchi, tutti sono nel medesimo rango e si prostrano insieme davanti al loro Signore.

Le modalità del rito d’adorazione sono quelle insegnate dal Profeta dell’Islam Muhammad, con il suo esempio che dice: «Eseguite il rito d’adorazione nel modo in cui l’avete visto eseguire da me».

Strutturalmente è formata da varie unità di adorazione e ognuna di queste riporta al ricordo e all’invocazione di Dio. Per essere all’altezza di presentarsi dinnanzi al Signore bisogna esser puri e per purificarsi si fanno le abluzioni e si rinnova la propria intenzione. La preghiera nell’ Islam è parte fondamentale del credente.

Meriem Finti

Nel Nuovo Testamento

L’altrove è ciò che attira l’animo umano: per sua natura l’uomo cerca di superarsi, di andare oltre, di spingersi sempre più in là. Il progresso della scienza e della tecnica rivela questa costante tensione del pensiero umano che nella conoscenza scopre la sua possibilità di superamento.

Ma proprio quando una meta viene raggiunta, subito un’altra sembra configurarsi all’orizzonte e invitare a spingersi oltre: ogni tappa sembra aprire un nuovo mistero. Così nell’esperienza del proprio limite, della propria finitezza e contemporaneamente di un infinito che ci supera, risiede il bisogno primario della preghiera. Essa è il segno dell’apertura alla trascendenza che ognuno avverte in sé. La «fede primordiale» è la ricerca di un Altro che possa soddisfare la sete di infinito e di eterno dell’uomo: questo muove ad aprire il cuore verso l’alto, a fare silenzio per ascoltare ciò che sembra indicibile e indecifrabile. Nell’ascolto profondo del sé si apre la sete dell’Altro e proprio nell’incontro con ciò che ci supera, la sete genera altra sete. È la percezione dell’infinito che muove alla preghiera: lo sgomento per l’indefinito si tramuta in ricerca, in domanda, in apertura all’incontro. Dove non c’è fede e preghiera subentra l’atteggiamento superstizioso verso le cose e il creato: il mistero diventa misterico, non c’è apertura ma chiusura in se stessi, paura invece di speranza. Spesso l’uomo vive fuori dalla preghiera, pensando così di ribadire la sua autonomia: in questo caso non è Dio a rimanere solo, ma è l’uomo a esserlo. È la solitudine disperata che ruba l’uomo a se stesso. Non a caso l’indicazione sulla preghiera che Cristo ci suggerisce è un’invocazione plurale a Dio: il Padre che è nostro (Mt 6,9).

La preghiera allena l’animo all’autotrascendenza: il suo fine è raccontare un incontro, esprimere Dio e scoprire il proprio io in rapporto a Dio stesso. Il fine ultimo non è la pura ricerca di se stessi ma l’adesione a Qualcuno di più grande del nostro io: l’uomo chiuso si apre a Dio come alla vera meta della sua vita.

Per i cristiani è Gesù, il Cristo, la via che porta all’incontro, la parola attesa dall’Alto, la vita che rivela il significato ultimo della nostra esistenza. Alla invocazione di senso del salmista (Sal 42-42,3), «l’anima mia ha sete del Dio vivente», fa così eco la dichiarazione di Cristo, raccontata da Giovanni (Gv 14,6): «Io sono la via, la verità e la vita».

Gianandrea Di Donna

Adolfo Locci
rabbino capo
comunità ebraica di Padova

Meriem Finti
studente di storia delle civiltà
e delle culture orientali
Università di Bologna
coordinatrice Comitato Emilia Romagna
dei Giovani Musulmani d’Italia

Gianandrea Di Donna
facoltà teologica del Triveneto
Padova