L’educatore e l’imprevedibilità

di Visentin Michele

Un cognitivo sofferente

«Preferirei di no – rispose lui
con quel suo tono flautato.
Ebbi l’impressione che,
mentre gli stavo parlando,
egli esaminasse attentamente
ogni frase che pronunziavo,
ne comprendesse chiaramente
il significato,
nulla potesse obiettare alle logiche
conclusioni, ma, che,
al tempo stesso,
qualche motivo ineluttabile
lo costringesse a rispondere
in quel modo».
(H. Melville, Bartleby, lo scrivano)

 

Fino a qualche tempo fa pensavamo di interpretare il nostro disagio di educatori con un deficit di conoscenza. Pensare di ridurre lo scarto tra ciò che si sa e ciò che si dovrebbe sapere ci ha portati a radicalizzare dentro di noi la frattura tra la dimensione cognitiva e quella emotiva e ci ritroviamo con un cognitivo sofferente, incapace di connettersi. Ci misuriamo con l’inconsistenza del gesto, con la sensazione di attuare iniziative «ridondanti», che non agganciano i problemi, ma finiscono per ripetere e riprodurre un copione che in realtà conserva ciò che vuole risolvere.

L’aumento della nostra conoscenza non ha ridotto la complessità ma l’ha implementata, fino al punto in cui il problema oggi non riguarda più la quantità di informazioni di cui dobbiamo disporre ma la qualità del modello che utilizziamo per entrare in relazione.

Qual è il modello che guida la nostra relazione educativa? Quali sono le sue regole?

Non ci concentriamo eccessivamente sulle caratteristiche ipotetiche della persona da cambiare e poco sulle regole che mantengono le ridondanze? Vi sono altri modelli possibili?

L’anticorpo cognitivo dell’imprevedibilità essenziale

In molti contesti educativi accade un gioco per il quale non valgono più le regole fin qui usate e tutte le possibili forme di comunicazione, anche le più sofisticate, appaiono sterili e inefficaci.

L’interazione sfugge alla pedagogia, alla psicologia e a quanti l’avvicinano allo scopo di interpretarla.

Non si intende con questo contestare la legittimità dell’indagine sociologica o psicologica, ma solo indicare un aspetto che all’interno del processo educativo sta emergendo negli ultimi anni con sempre maggiore evidenza, l’idea cioè che, nella relazione educativa, l’altro non è un alter-ego, ma quel che io non sono, vale a dire essenzialmente un interlocutore.

La nostra comune esperienza di educatori ci conferma che l’educazione è una forma di rapporto contaminante e non semplicemente un essere-con, estranea a ogni forma di mediazione concettuale e sempre più irriducibile alla modalità della conoscenza.

Non sempre, infatti, la possibilità di attribuire un senso comincia dal sapere, ma vi sono situazioni (in particolare l’educazione delle nuove generazioni) che si rifiutano di essere comprese all’interno di categorie sociologiche o culturali, e non per questo smettono di significare.

L’altro da educare è esattamente questo qualcosa che significa per se stesso, fuori contesto, prima e al di là di ogni tentativo di donazione di senso o di comprensione. Questo modo di manifestarsi è enigmatico in quanto cerca il mio riconoscimento pur conservando la sua incognita: enigmatico, non problematico. L’educazione non è un equivoco da risolvere, un problema di conoscenza, ma semplicemente un’espressione, che non chiede di essere interpretata.

Può essere utile ricordare il giovane Bartleby, protagonista del romanzo di Melville, e il suo tentativo di sottrarsi a un’interpretazione definitiva da parte di critici ed esegeti. È diventato un vero e proprio enigma, tale da giustificare addirittura il tentativo di Celati di raccogliere le ottantotto interpretazioni finora conosciute della celebre frase «preferirei di no» e di affermare che «questo personaggio ci attira verso un tranello in cui tutte le spiegazioni e le interpretazioni debbono cadere nel vuoto» (G. Celati, Introduzione a Bartleby, lo scrivano, Feltrinelli, Milano).

Generazione di preferenze più che di assunti

Qualunque aspettativa di instaurare all’interno di una relazione educativa un dialogo ragionevole viene regolarmente disattesa: «al momento preferirei non essere un poco ragionevole». Bambini, ragazzi, adolescenti, non hanno il minimo interesse a spiegarsi, a lasciarsi comprendere, assimilare.

È sulla comune accettazione della logica e del principio di non contraddizione che si basa la possibilità per gli uomini di interagire, comunicare, intendersi vicendevolmente. Ma l’agire – o meglio il non agire – di Bartleby si fonda su presupposti affatto inconciliabili. La logica su di lui non ha alcuna presa. Non è meno logico che illogico. Egli mina, mette in crisi, le fondamenta stesse del mondo del narratore, la sua presenza è come vento che spazza tutto e altera il senso delle cose.

Allo stesso modo «funzionano» i giovani di oggi, tanto che se ci ascoltassimo veramente quando parliamo di loro ci verrebbe quasi da ridere e ci tornerebbero in mente le parole di Lidia Ravera e della sua Lettera a un figlio adolescente: «Non hanno desideri, desiderano solamente. Non si divertono mai, sanno solo divertirsi, non sanno divertirsi. Sono dei vecchi, non crescono mai, sono dei bambini. Non hanno impeto, grinta, sono aggressivi. Non sanno soffrire, alla prima difficoltà, vanno a pezzi. Rinunciano a tutto perfino di innamorarsi. Si innamorano con troppa facilità e poi soffrono. Non credono a niente, credono a qualsiasi cosa».

L’educatore e la pazienza

L’idea di educazione in cui sia implicato un cognitivo più sofisticato non è da interpretare come una pura contrapposizione del non-senso al senso; è piuttosto uno scompiglio che sconvolge, una voce che viene dall’altra riva che mi fa sporgere. L’educazione è un dire che precede il detto.

La pedagogia e la sociologia sono già in ritardo rispetto a questo scarto e questa sporgenza che indicano già prima di qualsiasi tentativo di comprensione. Per quanto riguarda i giovani, ad esempio, non credo che il «sapere» sia l’alfa e l’omega della pedagogia che li voglia conoscere. I giovani non si lasciano pensare nel modo del potere e della comprensione appropriatrice ma nella forma dell’esposizione: di fronte all’inquietudine dell’esteriorità ci si espone, ma non subito di fronte a un corpo, né all’inconscio, né a un’adolescenza depressa, né a un altro io, semplicemente a un altro.

È il problema dell’alterità, con le sue domande, la questione fondamentale della pedagogia: è dunque un problema etico, perché legato alla responsabilità di una parola, quella dell’educatore, che non si assorbe in un detto, negando la distanza infinita tra sé e il giovane.

Se è ineludibile il tema dell’altro per la pedagogia, lo è anche il confronto con il tempo dell’altro, che non è mai il nostro. Ciò che ci viene chiesto oggi è di saper educare nell’attesa paziente di qualcosa che deve venire: bisogna educare con la sete di un futuro che non sia la semplice riproposizione del passato, accostarsi ai giovani con una domanda dentro di futuro nuovo.

Mi pare che la figura della pazienza sia oggi la più evocativa, la più forte e incisiva per indicare l’atteggiamento provocante dell’educatore verso le nuove generazioni.

Ciò che scardina ed ha capacità interrogante è questa pazienza non subordinata al pensiero, che non può essere valutata, soppesata e che spinta fino-alla-fine è rinuncia a essere contemporanei della propria opera.

Progettare l’improgettabile?

Di fronte all’acquisita consapevolezza dell’intrigo che caratterizza la relazione educativa, c’è ancora spazio per la progettazione di attività educative? Hanno ancora senso, se il loro scopo è solo quello di ridurre tale intrigo, semplificandolo all’interno di categorie sociologiche o pedagogiche? Possiamo progettare una relazione educativa, di fronte all’ipercomplessità dei rapporti umani, oltre che delle organizzazioni e della realtà in cui essi vivono? Il problema è ormai quello di trasformare la scoperta della complessità in metodo della complessità, afferma Morin, ma nessuno sembra spiegarlo agli educatori!

Come progettare il non-progettabile?

Che cosa fare con Bartleby?

Nulla se ci riferiamo a qualcosa da fare, tanto se ci riferiamo a una modalità legata allo sguardo. Ad esempio può essere utile osservare che molti fenomeni appaiono complessi solo inizialmente, e che diventano immediatamente comprensibili nel momento in cui si decide di cambiare il paradigma che si usa per descriverli o interpretarli. La complessità non è nella natura di un giovane, ma nel modello che l’osservatore-educatore si costruisce del fenomeno educativo. In altre parole, la complessità non è del sistema osservato ma del sistema osservante, come sottolinea Jean-Louis Le Moigne (Progettazione della complessità e complessità della progettazione, in La sfida della complessità, Feltrinelli, 1995).

Il problema che si pone è quello di aiutare l’osservatore-educatore a diventare progettista di modelli complessi. Con quale metodo progettare?

Stiamo attraversando un periodo in cui l’idea che il processo educativo sia qualificato da una programmazione puntale e precisa, e dunque da un’analisi della situazione fedele, dalla capacità di stabilire obiettivi chiari e strategie di intervento adeguate, l’idea cioè che l’azione educativa possa essere pre-vista, quasi scientificamente, pro-gettata, sta lasciando il campo a un’educazione intesa più nella sua aleatorietà, avventurosità, e disorganizzazione. È possibile, in altri termini, pensare l’educazione come circostanza eventuale dell’incontro umano? Sarà possibile formare creando luoghi dove dispiegare un pensiero pedagogico attraverso l’azione, un pensiero multidimensionale, generativo, trasformativo, che parli il linguaggio della vita?

Sarà possibile se mettiamo in discussione la nostra consueta modalità di espressione che dovrebbe essere più coerente con quella che Bateson chiama «struttura che connette». Nessuna struttura può connettere se la nostra modalità espressiva resta ancorata alla ricerca di risposte imitative e reduplicative dentro una relazione educativa, piuttosto che alla ricerca di un modo di chiedere.

Michele Visentin
filosofo e dirigente scolastico,
si occupa di educazione e di formazione
anche nell’ambito delle organizzazioni
e della gestione delle risorse umane