Il salvagente con l’ochetta
Gatteo a Mare è stato un sorriso. Anzi, un bacio. Gatteo me lo ha regalato come si dà una caramella a un bimbo e io gli dico grazie soltanto adesso, quarant’anni dopo. Mi sento ingrato.
Avevo sette anni e la riga diritta come un fuso, il nastro azzurro sul grembiulino nero e il colletto bianco come la neve. Finivo il mio primo anno scolastico così come lo avevo cominciato: affondato nelle mie paure sottili e nella mia timidezza ordinata. Però avevo trovato il coraggio di scriverlo sul mio quaderno dalla copertina blu, quello dei pensierini: «Quest’estate vado al mare con la mia mamma e con il mio papà, se sarò promosso». Senza errori.
Però quella «Q» maiuscola è sempre stata il mio cruccio. Ogni tanto la sbagliavo, però sono certo che quella volta non l’ho proprio sbagliata. Avevo il mare da conquistare e non potevo correre rischi.
Mia madre era stata un po’ severa come al solito: «Guarda che se sarai bocciato, niente mare». Come si fa a dire queste cose a un bimbo che, a quattro anni e mezzo, conosceva già tutte le targhe italiane e che, a sei anni, leggeva la sua adorata Gazzetta dello Sport e sapeva già tutto sull’Inter di Herrera?
Pertanto mi sono messo giù con la testa, anche perché il mare non l’avevo mai visto: otto, nove e dieci, otto, nove e dieci.
Una veglia nella notte
Ah, il mare… Da sempre mi sembrava grande, enorme, infinito. L’ho sempre amato di un amore misurato e rispettoso, mai esibito. Ecco perché oggi mi piace camminare lungo le spiagge, i lungomari, le terrazze, gli scogli e i promontori, cercando morbosamente il vento. Ne cerco la carezza che uno non si aspetta e che arriva all’improvviso. È come se lo baciassi e mi sentissi baciato in modo fuggevole e veloce. Quando, un giorno, sono salito sugli hoog del Mare del Nord e l’ho visto lontanissimo in quella sconfinata bassa marea, ho creduto che mi sfuggisse per la sua timidezza. Timido io a cercarlo e timido lui a scappare verso il largo.
Però il viaggio verso Gatteo a Mare per me è stato come una veglia nella notte, con le lampade accese. Altro che timidezza. È stato come un inno pasquale in attesa della Risurrezione: «Nella notte, o Dio, noi veglieremo con le lampade vestite a festa. Presto arriverai e sarà giorno». All’una di quella notte dell’agosto 1968 mia madre mi aveva sollevato dolcemente dal letto, appoggiandomi sul sedile posteriore della 500. «Dove andiamo?» – le avevo chiesto ancora assopito. «Al mare. Dormi adesso» – mi aveva risposto.
Il mare! La lampada si accendeva nella notte in quella 500 stretta e rumorosa. Io ero steso sul sedile posteriore, mentre mia madre stava seduta davanti, con una grande borsa tra lei e lo schienale e mio padre guidava come sempre: rigido come un baccalà. Aveva preso la patente a 33 anni, dopo essere stato bocciato solo una volta all’esame di guida, e si vedeva. Affrontava la prova della vita e si vedeva. Un segno della croce prima di partire, mentre le valigie erano state fissate sul portapacchi, e poi via! Via verso Gatteo a Mare, via verso il Rubicone, via verso un mare azzurro come il cielo!
La poesia però aveva lasciato subito il suo spazio allo stendi-panni di mia madre che batteva in continuazione sulla cappotta. Patapim, patapam, patapim, patapam…
Che bello! Egidio Cardini, bambino studioso e quieto, andava al mare tra una valigia sulla cappotta e uno stendi-panni che si ribellava all’Autostrada del Sole. Patapim, patapam, patapim, patapam…
Lodi! – «Egidio, stai giù e dormi».
Casalpusterlengo! – «Egidio, ti ho detto di stare giù».
Piacenza Nord! – «Egidio, dormi o no?». Piacenza Sud! Fiorenzuola d’Arda! Fidenza! Parma! E poi ancora tutte le altre. Le sapevo tutte, proprio tutte, fino a Cesena. Le sentivo come se avessi maturato un sesto senso e allora mi alzavo di scatto: Modena Sud! Bologna chilometri tre, Bologna chilometri due, Bologna chilometri uno. Bolognaaaaa! A
h, Bologna… Bologna era la città di Giacomo Bulgarelli, di Marino Perani e di Franco Janich. Lo conoscevate voi Franco Janich? Io lo conoscevo. Eccome se lo conoscevo. Era il numero 5 del Bologna nella mia raccolta di figurine dei calciatori, quella che conservavo con tanta passione e con quell’odore acre della colla da cartoleria nel mezzo delle pagine, con cui ci si impiastricciava sempre le mani.
A Cesena la luce era spuntata come il Risorto. Il primo cartello «Al mare» aveva sollecitato il mio istinto geografico più profondo: «Mamma, qui c’è un paese che si chiama «Al mare»». Già, il mare.
Una tensione verso un volo eterno
L’ingresso a Gatteo a Mare è stato per me un trionfo indimenticabile, in quel vorticoso roteare di colori, di cappelli, di luci e di raggi di un sole infuocato già di prima mattina. Un camioncino bizzarro e strampalato preannunciava un’esibizione dell’Orchestra di Secondo Casadei, mentre in spiaggia le ragazze, oggi signore sessantenni, portavano quei giganteschi bikini o, come li chiamava mia madre, «due pezzi».
Però Egidio non sognava ancora quei due pezzi dalla vitalità straordinariamente prorompente. Lui guardava il mare, lo scrutava in profondità, lo sentiva rotolare verso terra con le sue onde felici. Come tutti i bambini, lui andava avanti. Perché il mare è così, è un’attrazione, una calamita, una tensione verso un volo eterno. In fin dei conti verso il mare ci si protrae come ci si tende verso un sogno bellissimo.
Di quella vacanza conservo un ricordo stupefacente. Ogni istante resta un «flash» fulminante che si stampa nella mia memoria, immagini uniche e irripetibili: il molo di legno, l’orrendo costume intero di mia madre, di colore rosa con i fiori neri, e poi l’ordinaria nuotata al largo di mia padre e la rituale inutile frase in dialetto di mia madre: «Sta’ tentu» – «Stai attento». E poi ancora, flash dopo flash: il ponte romano sul Rubicone, l’Hotel Adriatico, gli ombrelloni aperti, le bandierine rosse e gialle, il grattacielo di Cesenatico in lontananza, i Bagni Pani, la colonia elioterapica poco lontano, i due pezzi turbinosi davanti al mio nasino, la mia magliettina a righine orizzontali, la canzoncina di Adriano Celentano ripetuta fino alla nausea dagli altoparlanti, l’escursione a San Marino, le passeggiate a piedi fino a Villa Marina, il battellino per il delfinario di Rimini, il bagnetto del pomeriggio, la giostra della sera, il caffelatte del mattino e la prima bambina che mi ha parlato…
Sì, sì, avete letto bene: la prima bambina che mi ha parlato. Che emozione la prima bimba…
Non ci crederete, ma anch’io ho avuto le mie occasioni. Purtroppo le ho perdute, ma oggi devo dire che anche a me la Riviera Romagnola ha riservato uno spazio di trasgressione. Forse le sarà piaciuto il mio costumino con il cinturino o forse il mio pallone nerazzurro che non lasciavo mai o magari le mie formine rosse per la sabbia. Però credo di esserle piaciuto.
Purtroppo è andata male, miei cari. A dire il vero, non mi ricordo perché, ma è andata male, come sempre. Però posso supporre che si sia trattato del salvagente con l’ochetta. «Sai nuotare?» – «No, però ho il salvagente con l’ochetta davanti». Fine della conquista.
Aprile 2004
Sono tornato a Gatteo a Mare nell’aprile 2004. Da solo, come sempre. Quando devo provare un’emozione forte e struggente, mi piace restare sempre da solo. In compagnia di altri mi commuoverei.
La stazioncina era sempre la stessa, il viale che portava al mare era completamente cambiato, ma a me era parso ancora quello del giorno del mio ingresso trionfale. E poi quel mare orribile, che però mi ha dato la stessa emozione della prima volta in cui ho visto il mare a Copacabana. Arrivato davanti all’Hotel Adriatico ho rivisto gli stessi balconi, allora modernissimi e oggi vecchiotti. Stavano avviando lavori di ristrutturazione e pareva che volessero attendere il mio ultimo passaggio. Ho rivisto la scalinata dove mi hanno scattato una foto con mio padre e mia madre mentre mi stavo grattando il sederino. Lo facevo sempre quando mi sentivo in imbarazzo.
Senza accorgermi la mia mano è partita e mi sono dato ancora una grattatina. Ho sorriso di cuore in mezzo alla strada.
Poi ho rivisto tutto: i Bagni Trieste, l’Hotel Imperiale, il ponte sul Rubicone, la colonia elioterapica trasformata in scuola materna, la spiaggia, il mare. Sì, il mio mare di bimbo…
Minchia, ragazzi: lo stesso odore, lo stesso rumore, lo stesso colore, lo stesso bambino timido timido, le stesse bandierine gialle e rosse, lo stesso grattacielo di Cesenatico in lontananza, lo stesso pallone nerazzurro, la stessa bimba così discreta. Lo stesso salvagente con l’ochetta…
Hanno visto un uomo di più di quarant’anni, con l’aspetto ancora di un ragazzo, che correva su e giù per la spiaggia di Gatteo a Mare. Dicevano che fosse un insegnante di religione che abitava vicino a Milano e che aveva perso il giudizio senza un perché. Saltava, gridava, diceva: «Corso, Suarez, Mazzola, goooool!». Non lo hanno preso per matto solo per questo, sapete? Però si sono proprio tanto impressionati quando lo hanno visto mentre indossava un salvagente con l’ochetta, correndo ancora più forte verso il mare e gridando come un pazzo: «Mi ha detto che, anche con l’ochetta, le piaccio lo stesso! Le piaccio lo stesso! Le piaccio lo stessoooooooooo!!!».