Ricondurre la scienza al servizio della persona

di Bertin Mario

La grande vecchiaia

Nell’ultimo numero di Madrugada abbiamo segnalato il fenomeno del progressivo invecchiamento della popolazione come un fenomeno destinato a incidere, soprattutto attraverso l’aumento esponenziale delle persone non autosufficienti, sui rapporti interpersonali, sugli equilibri familiari e sull’organizzazione della società. Si tratta di un fenomeno sottovalutato perché ancora non pienamente esploso, ma carico di gravi conseguenze.

Vorremmo ora, con la proposta di alcune disordinate considerazioni, avviare un percorso di riflessione su talune non marginali implicazioni che peseranno negli anni a venire.

Parliamo dell’Italia, anche se a essere interessato al fenomeno è tutto l’Occidente «sviluppato».

Un paese di matti

Delle malattie degenerative che colpiscono la fascia dei «grandi vecchi» (le persone oltre gli ottant’anni), quelle che mettono più spavento sono l’alzheimer e, più in generale, la cosiddetta «demenza senile». Incutono paura alla persona che, con l’avanzare dell’età, ne scopre improvvisamente i sintomi nei suoi comportamenti quotidiani (difficoltà a esprimere correttamente il proprio pensiero, perdita della memoria, ecc.) e mettono paura a coloro che sono chiamati a vivere con la persona malata, perché giorno dopo giorno si accorgono che non è più la persona che hanno conosciuto e che hanno amato e giorno dopo giorno la vedono perdere la sua autonomia e il suo equilibrio.

Poniamo il caso dell’alzheimer che rappresenta circa l’ottanta per cento delle demenze. Viene il giorno in cui la memoria comincia a fare cilecca, il mattino in cui la persona non ricorda più quello che sapeva la sera prima. Paola Peduzzi parla di accecamento della memoria.

«Mestolo papà, si chiama mestolo. Quell’aggeggio, quel cazzo di aggeggio che serve per portare la minestra dalla pentola al piatto. Quel dannato coso che serve per mescolare la minestra. Mestolo, papà, si chiama mestolo. Cazzo cazzo cazzo. Un pezzo via l’altro, tutto scivola piano dalla memoria, si va a incastrare in qualche buco remoto, e scompare», racconta Morderai Richler in La versione di Barney. Ecco che cosa è l’alzheimer. Tutto il passato di una persona sprofonda adagio adagio in un pozzo buio, dal quale ogni tanto emerge uno sporadico ricordo, le ossessioni e poi più neppure quelle. La persona affetta da alzheimer, nello stadio avanzato della malattia, non riconosce più i propri figli e gli amici. Le persone più care si fanno estranee; capita che egli le tratti con violenza, che le aggredisca. E non ci puoi fare nulla, se non cercare di ritardare lo stadio definitivo della malattia per mezzo di farmaci. E allora, con lo scoramento può subentrare la stanchezza la voglia di abbandonare la persona cui hai voluto bene a un estraneo, che le può offrire soltanto un’assistenza mercenaria.

Non molto dissimile è il comportamento di coloro che soffrono di demenza senile. Sono storie, sono mondi che vanno in pezzi e tocca agli altri, ai congiunti, cercare di mettere insieme i cocci, di ricostruire il filo spezzato dell’esistenza. Ma come?

Questo è il vero problema che l’invecchiamento della popolazione fa ricadere su un numero crescente di famiglie. In Italia le persone che soffrono di alzheimer sono circa 800mila, numero che è destinato ad aumentare. Più numerose sono quelle colpite da forme diverse di demenza.

Il problema principale che esse pongono alle famiglie e all’intera società è quello dell’accompagnamento. Si tratta infatti di individui che, fino all’ultimo momento, non cessano di essere persone, con tutti i diritti di attenzione e di «cura» dovuti a ogni persona. Ma viene da chiedersi: che persona è mai questa in cui l’immagine del mondo è andata in frantumi, lasciandola nell’incapacità di rapportarsi agli altri sulla base di valori comuni; che persona è mai questa, che vive prigioniera di un presente prodotto dall’illusione e privo di qualsiasi luce che venga dal passato e dal futuro, senza la mediazione di alcuna cultura?

Venendo al concreto, che cosa vuol dire, ad esempio, per un figlio «accompagnare» il padre o la madre, colpiti da queste terrificanti forme morbose? Vuol dire prenderli sottobraccio e imboccare assieme a loro la strada della follia? Assumere come nostro, anche se provvisoriamente, il loro mondo «irreale»? Entrare in questo mondo per aiutarli a cercare un senso dentro il loro mondo «alterato»? Per aiutarli a superare i loro incubi e le loro paure, che sono per loro terribilmente reali? A trovare equilibrio e serenità nella scena in cui la demenza li ha collocati a recitare l’ultimo atto della loro vicenda umana? Vuol dire spogliarsi completamente di se stessi per entrare nella loro storia, per far proprie le loro domande «sconclusionate» sul mondo e cercare con loro la risposta buona, quella buona per loro? Che cosa vuol dire per un figlio, in nome del suo affetto filiale, entrare in una storia in cui egli non è più figlio o per un marito o una moglie entrare in una storia in cui non sono più marito o moglie? Che cosa vuol dire essere guardato come un pazzo da una persona diventata improvvisamente pazza? E però le vite di nostro padre e di nostra madre, come la vita di chiunque, restano fino all’ultimo momento vite alle quali dare un destino.

Non si può somministrare loro una morte provvisoria sedandoli fino all’inebetimento. Accompagnarli vuol dire restare nel loro mondo oppure cercare di ricondurli nel nostro?

Mi si scusi questo lungo rosario di punti interrogativi. È che a questo compito non siamo preparati da una cultura che privilegia i valori dell’individuo e affida la salvezza alla omologazione dei comportamenti, prevedendo l’esclusione per coloro che a questa omologazione si rifiutano.

Assistere un vecchio demente comporta una grande rivoluzione negli atteggiamenti dai quali facciamo dipendere la percezione del nostro agire. Ma esige anche di riprendere in considerazione alcuni modelli ideali di convivenza che erano stati disegnati dalle visioni utopiche della fine degli anni ’60 e che consistevano nel ricostruire la comunità sulla base di una ritrovata responsabilità nei confronti degli altri. Scelte di tale natura potrebbero ispirare, tra l’altro, interventi mirati a garantire l’efficienza dei servizi sociali. Questo però è un argomento che richiederebbe una lunga trattazione, che qui non può essere affrontata.

La «grande morte»

Arrivati a questo punto, mi chiedo, come mi ero chiesto nell’articolo precedente, se l’allungamento biologico della vita – quando non accompagnato dalla garanzia della sua qualità – sia una conquista della scienza, come viene abitualmente accreditata, oppure un grande disastro.

Noi constatiamo che quando l’uomo, spinto da un incomprimibile desiderio di eternità, si affanna nella ricerca tesa ad allungare sempre più la vita, spesso pone in essere situazioni che peggiorano invece di migliorare la condizione umana.

Allora viene qui spontaneo evocare l’insegnamento cristiano che considera l’eternità – alla quale l’uomo aspira – non come una banale prosecuzione illimitata della vita, ma come una sua dimensione, che esige il prezzo della nostra morte. In questa visione, la morte diventa essa stessa un progetto di vita. Ne ha parlato anche Benedetto XVI nella sua recente enciclica Spe salvi. Dice il papa che nella nostra esistenza c’è una contraddittorietà interna: da una parte, non vogliamo morire, e dall’altra siamo coscienti che la Terra non è stata creata con questa prospettiva. Vogliamo la felicità senza fine, ma nel perseguire l’immortalità attraverso le conquiste della scienza, ci procuriamo l’infelicità.

A questo proposito, il papa cita quanto dice S. Ambrogio nel discorso funebre per il fratello Satiro: «È vero che la morte non faceva parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede a rimedio».

Bisognerebbe allora tornare all’invocazione di R.M.Rilke:

O Signore concedi a ciascuno la sua morte:

frutto di quella vita

in cui trovò amore, senso e pena.

Non la «piccola morte», che prende alle spalle, che «pende dentro / come un frutto che non matura», ma la «grande morte che ognuno ha in sé / il frutto attorno a cui ruota ogni cosa».

Perché ciò che ci rende estraneo e grave il morire

è che la morte non è nostra, ch’essa ci prende

solo perché non ne abbiamo maturata un’altra.

Ed è una tempesta e ci sfronda tutti.

Perché quando arriva, «siamo vecchi […] chiusi, cattivi e sterili».