Pellegrinaggio

di Pinhas Yarona, Khadija Dal Monte Patrizia, Broccardo Carlo

Nella Torà

L’uomo teso tra l’andare e il venire

Ogni pellegrinaggio è spirituale.

La nascita è l’inizio del pellegrinaggio dell’anima nelle vesti di un corpo materiale. In Genesi l’anima umana fu cacciata dal giardino dell’Eden dopo aver infranto il divieto divino mangiando il frutto proibito. Da allora l’essere umano cerca il suo luogo sulla Terra emigrando e immigrando, andando e venendo, errando tra una dimensione e l’altra, viaggiando tra il sacro e il profano.

«Dove sei?» – chiese Dio al primo uomo coperto dalla vergogna e dalle tuniche di pelle, ma nudo di sapienza e luce divina (Genesi 3:9). Questa è la domanda che ogni uomo deve porsi quotidianamente: Dove sono e dove voglio andare? Qual è la mia meta e che cosa voglio raggiungere nella mia vita? A che punto del mio cammino sono? Quali passi devo fare per avanzare nel progresso spirituale?

Il cammino dei Padri

I padri d’Israele hanno insegnato con l’esempio come procedere nel cammino verso la meta prefissata da Dio.

Abramo comunica al mondo intero: «C’è Dio». Suo figlio Isacco contempla: «Dio è in me». Suo figlio Giacobbe-Israele tramanda: «Dio è nei miei figli».

Abramo cammina, Isacco siede e Giacobbe indica il cammino ai propri figli.

Abramo va incontro al mondo e lo modifica con l’azione, Isacco stabilisce l’ordine della propria casa, Giacobbe-Israele insegna come vivere i cambiamenti nella sacralità della casa. Abramo precede i figli. Isacco siede accanto ai figli. Giacobbe-Israele segue i figli.

Il protagonista del libro di Genesi è Abramo a cui Dio ordina: «Va’ via dal tuo paese, dal tuo parentado, dalla tua casa paterna, al paese che ti indicherò… renderò grande il tuo nome, sarai una benedizione» (Genesi 12:1-2). Un viaggio per gradi ascendenti di difficoltà: l’abbandono della propria nazione e della casa paterna era il primo dei dieci esami a cui Abramo fu sottoposto da Dio. In ebraico, lekh lekhà può essere letto come «va’ verso te stesso», un viaggio che nella sua essenza percorre un itinerario interiore. Siamo chiamati ad ascoltare per sapere qual è la destinazione e il progetto di vita. Il protagonista del libro dell’Esodo è Mosè a cui Dio ordina: «Vieni al faraone… al fine di operare in lui tutti questi Miei prodigi» (10:1). Faraone, paro’, in ebraico le stesse lettere di ‘oref, nuca, simbolo del rigido ego che ostacola ogni cambiamento o presa di coscienza. Il faraone è il simbolo dell’«altro lato», in lotta perpetua con il dinamismo spirituale che alberga in ogni uomo. Mosè affronta la sua identità egiziana e sceglie di vivere da ebreo. Il venire, bo, di Mosè garantisce il lekh, l’andare via, del popolo d’Israele dalla terra d’afflizione. Mosè ci invita al rinnovo continuo, al sentirci uomini liberi, padroni del nostro tempo e accettare nel nostro cuore con fede e fiducia le leggi divine.

La trasformazione è possibile solo quando le abitudini e gli schemi mentali acquisiti nella propria casa vengono abbandonati per intraprendere una via illuminata da nuova consapevolezza. Per superare la paura del cambiamento c’è bisogno di essere sostenuti dalla fede in Dio e dalla fiducia in se stessi, per poter affrontare le prove che saranno misura di audacia e perseveranza.

Questo è il pellegrinaggio che ci porta verso un luogo sacro: noi stessi. Questo è il cammino che ci porta a Gerusalemme, Yerushalem (città completa), da shalem, completo, verso shalom, la pace. Prima con noi stessi e poi con gli altri. In questo consiste la benedizione per sé e per l’intero mondo in cui viviamo.

Yarona Pinhas

Nel Corano

Il pellegrinaggio, realtà conosciuta in diverse religioni, nell’islam prende il nome di Hajj (letteralmente muoversi verso un obiettivo), ed è un partire verso la Mecca, territorio sacro dove sorge la Ka’ba e qui compiervi i riti stabiliti.

Esso costituisce uno dei pilastri dell’Islam ed è legato a grandi benedizioni, tra le quali il perdono di tutti i peccati. È obbligatorio per tutti i musulmani e musulmane, che posseggano la salute e i mezzi finanziari per andarci, almeno una volta nella vita.

Il suo significato sta proprio nel riassumere e celebrare ritualmente quella che deve essere la vita del credente in questa terra, in particolare ci sono tre elementi che emergono nei gesti e nelle parole che in esso si compiono.

1) La centralità di Dio è continuamente ricordata nella tradizione islamica e alla Ka’ba domina ogni gesto e parola del pellegrino; è Dio che chiama al pellegrinaggio, e queste sono le parole che il pellegrino proclama arrivando alla santa Casa: «Eccomi, oh Signore, eccomi»; i pellegrini sono «chiamati da Dio» per essere Suoi ospiti. Dio è l’Uno: l’Umanità intera dipende da Lui, il suo evolversi attorno a Lui viene celebrato ritualmente nel tawwaf, girando in senso antiorario sette volte intorno alla Ka’ba. Il pellegrino, poi, sosta da mezzogiorno al tramonto ad Arafat, per chiedere a Dio il perdono; è questo il giorno più importane del pellegrinaggio. «Se i vostri peccati fossero tanto numerosi quanto i granelli di sabbia, le gocce di pioggia o la schiuma del mare, Io li perdonerei. Rifluite in massa, o Miei servi a cui Io ho perdonato, così come a coloro per cui avete interceduto» (hadith).
2) Il pellegrinaggio, poi, approfondisce la coscienza della provvisorietà della vita terrena e dei suoi beni. Si comincia col partire lasciando tutto ciò che ci sostiene nella vita di ogni giorno: casa, affetti, lavoro e mostrando un distacco dal corpo con l’ihram: vale a dire per gli uomini solo due pezzi di stoffa non cuciti, per le donne semplicità; sospesi i rapporti coniugali e ogni cura estetica. A Mina per sei giorni si dorme sotto la tenda o il cielo… La spogliazione richiama la nascita e la morte, momenti in cui l’essere umano non possiede nulla, ed è memoria che: «La vita terrena non è altro che godimento effimero» (LVII, 20). Ma alla spogliazione del corpo deve corrispondere quella interiore: «Il pellegrinaggio avviene nei mesi ben noti. Chi decide di assolverlo, si astenga dai rapporti sessuali, dalla perversità e dai litigi durante il pellegrinaggio» (II, 197).
3) La necessità della lotta contro il male viene espressa con il lancio delle pietre alle steli, rituale ripetuto anche nei tre giorni successivi a Mina, ricordando la lotta di Abramo, pace su di lui, contro il tentatore… Siccome lotta e sacrificio fanno parte della realtà umana e del cammino di fede, ecco che il pellegrino compie sette volte il percorso tra due collinette, che è memoria dell’affannosa ricerca di Agar, quando abbandonata nel deserto temeva per la sua vita e quella del figlio Ismaele e correva nella speranza di trovare dell’acqua. Allah fece sgorgare una fonte che ancora oggi disseta, quella di Zam Zam… Alla fine dell’Hajj ogni Pellegrino sacrifica un agnello, memoria del sacrificio di Abramo. «Quando il Signore lo provò con i suoi ordini ed egli li eseguì, (il Signore) disse: «Farò di te un imam per gli uomini»» (II,124). Questo per indicare che non c’è prova e sacrificio che non siano abbondantemente ricompensati da Dio.

Patrizia Khadija Dal Monte

Nel Nuovo Testamento

Almeno una volta in vita, varrebbe la pena leggere di seguito tutto il Vangelo secondo Marco. Possibilmente nella lingua originale, il greco; o almeno in una traduzione letterale. L’impressione che ne viene è quella di un continuo movimento, spesso una corsa.

Nei primi capitoli, per esempio, ritorna con un’insistenza esasperante l’avverbio «subito» e poi ci sono frasi molto brevi collegate sempre da un «e»; la traduzione italiana abbellisce un po’ il testo, però ne toglie quel senso di fretta che si sente nell’originale.

Non sono sottigliezze linguistiche, né roba da esperti: è Marco che adatta lo stile del suo racconto al contenuto. Egli, infatti, per tutto il Vangelo, narra di Gesù che si sposta in continuazione da un luogo all’altro e, velocemente se non con fretta, passa di città in villaggio a proclamare la sua buona notizia: il Regno è qui, Dio si è ricordato di noi! I miracoli si accumulano uno sull’altro, la gente si stringe attorno a lui quasi soffocandolo, i nemici lo accerchiano per metterlo in difficoltà. E i discepoli vanno in confusione e capiscono sempre meno…

L’itinerario di Gesù, all’inizio, è un movimento circolare; poi, verso la metà del Vangelo, tutti gli spostamenti vengono orientati in un’unica direzione: Gerusalemme. Più ci avviciniamo alla meta, più il ritmo rallenta; giunti nella città santa si ha quasi l’impressione di una pausa: sempre più lentamente vediamo Gesù tradito, rinnegato, ucciso. Stop: fermo immagine sulla scena della morte in croce. Lì Marco si ferma e dice: guardate! Ora non c’è fretta, bisogna fermarsi e contemplare; ci vuole tempo. Peccato che i discepoli non ci siano: sono fuggiti pieni di paura, già da un po’…

Detto così, il Vangelo secondo Marco potrebbe sembrare la storia tragica di un eroe solitario, Gesù; invece fin dalle prime battute Gesù si circonda di discepoli. O forse è meglio dire: di seguaci; chiama quattro pescatori e dice: «Seguitemi». Quando poi decide di andare a Gerusalemme, Pietro gli si para davanti e vuole impedirglielo; allora Gesù lo rimprovera dicendo: «Tu sta’ dietro di me!». Quello è il ruolo del discepolo: seguire. Il Vangelo secondo Marco è fondamentalmente un invito a seguire Gesù: il centro del suo racconto non è un’idea, ma una persona; e la fede non è anzitutto comprendere, ma camminare, seguire.

Se leggiamo il Vangelo secondo Matteo, Gesù assomiglia a un maestro che ogni tanto si siede, circondato dai suoi discepoli e/o dalla folla, e insegna: spiega, racconta, discute… Marco no: Gesù non sembra mai stanco e i suoi discepoli gli corrono dietro in continuazione, senza riuscire a raggiungerlo. E quando sembrano arrivati, subito Gesù si alza e li precede altrove. Nella fede non si è mai arrivati, si è sempre in cammino; nessuno, neppure i discepoli sono riusciti a raggiungere Gesù! La vita ha senso – nella prospettiva della fede – come cammino, come un seguire Gesù nell’attesa del giorno beato in cui finalmente lo incontreremo, lo vedremo faccia a faccia, staremo con lui per sempre. Per ora siamo viandanti, pellegrini, sulle orme di Gesù e nell’attesa di poterlo incontrare. Non a caso le ultime parole dell’ultimo libro del Nuovo Testamento sono un’invocazione: «Vieni, Signore Gesù».

Carlo Broccardo