Il viaggio del pellegrino
Verso Santiago de Compostela
Le ruote scivolavano sull’asfalto bagnato dal temporale estivo, la porta di casa chiusa dietro le spalle. E mentre i muscoli si scaldavano e l’aria frizzante mi sferzava il viso, la domanda risuonava dentro: che follia è questa, dove vai, cosa cerchi? La risposta – sono sincera – non l’ho trovata e la domanda mi ronza ancora nell’orecchio come una eco lontana, rimasta dietro una porta chiusa una mattina d’estate. Andavo a Santiago, alla tomba dell’apostolo San Giacomo il Maggiore, il pescatore di Galilea, uno di quelli che lasciò le reti per seguire Gesù, senza una domanda. I vangeli parlano poco di lui; non ha l’appeal di Giovanni, l’ingenua autorevolezza di Pietro, né l’aura demoniaca di Giuda Iscariota. Naufragò nell’Atlantico al largo delle coste della Galizia, si dice. Le sue ossa rimasero silenti per ottocento anni fino a quando su di loro scese una pioggia di stelle, vi si costruì attorno una cattedrale e si cominciò la Reconquista. San Giacomo indossò un’armatura e in sella a un cavallo bianco imparò a mulinar la spada a fianco dei combattenti cristiani e nel giro di qualche secolo i Mori furono cacciati dalla Spagna.
La strada sorprende sempre il pellegrino e la polvere sollevata dai sandali o dalle ruote di una mountain bike offusca anche la meta più ambita, mentre si posa come una magia sul mondo, avvolgendolo di nuovi colori.
Il richiamo dell’anno giacobeo forse
Il traguardo poco a poco sfumava, come la partenza, e perdeva le sue coordinate geografiche. Rimaneva solo il presente, un tempo scandito dal ritmo circolare delle ruote, uno spazio testimoniato dallo scorrere del contachilometri. Attimi finalmente vissuti, mentre pedalavo affannata su una salita scoscesa o rabbrividivo in una discesa a rotta di collo. Rimaneva la condivisione gentile con altri viandanti di un saluto, di un momento di ristoro, del racconto l’un l’altro della strada fatta in un giorno o della propria vita.
E scivolava via anche la consapevolezza di essere entrata, da cliente, in una grande operazione commerciale. Non mi ero sottratta al battage pubblicitario dell’Anno Santo Giacobeo, una mossa astuta del Ministero del Turismo spagnolo, sulla scia della riscoperta dell’antico percorso, ricostruito spesso arbitrariamente in base alla legge della giunta più forte. Le frecce gialle, che dalla Navarra si infittiscono in modo ossessionante, fanno compiere al povero pellegrino tortuose deviazioni per la gioia delle locali associazioni di commercio.
Ma il mercato è flessibile e proporzionale alle concentrazioni di umanità, anche sulle vie dei pellegrinaggi, oggi come allora, quando nel medioevo il cammino verso Santiago si incise sulla carta geografica d’Europa. Un codice del XIII secolo ha conservato una delle prime guide che siano mai state scritte, ancora attuale, per esempio, quando descrive la Galizia come si presenta al pellegrino proveniente a piedi dal Regno dei Franchi, al termine di una delle tappe più faticose, la salita al monte Cebreiro: «Quindi, dopo aver attraversato il territorio di Leòn e i passi del monte Irago e del monte Cerbero, si arriva in Galizia: è una terra boscosa, con fiumi, prati e ottime piantagioni di frutta; produce buone messi e possiede purissime sorgenti d’acqua […]». L’anonimo redattore, ignaro del «politicamente corretto», mette in guardia il pellegrino dalle popolazioni che incontrerà per strada: «Gli abitanti della Galizia sono facili all’ira e assai litigiosi». Quelli del Paese basco e della Navarra non se l’erano cavata meglio: barbari, feroci, simili a cani e porci.
La sottile inquietudine di jacopo e nostra
La paura dell’altro non è ancora passata ma se l’Europa si è faticosamente unita lo si deve anche a quei milioni di uomini e donne che percorsero le rotte dei pellegrinaggi, intrecciando nella geografia e nella storia una rete di incontri e relazioni tutt’altro che virtuale. Nonostante i pericoli, veri o presunti, si mettevano in strada verso Santiago, Roma, Gerusalemme. L’ironia umanissima di Geoffrey Chaucer descrive una comitiva pronta a partire per Canterbury: una priora, un mercante, un cavaliere, un borghese, gente diversa ma tutti animati da uno stesso desiderio di scuotere via il torpore e di ascoltare quella sottile inquietudine che spinge a mettersi in viaggio verso terre straniere, come la brezza di primavera e la pioggia dolce d’aprile penetrano nelle radici irrigidite dall’inverno.
Un motivo ricorrente nella storia dei pellegrinaggi era la richiesta di una grazia o l’adempimento di un voto. Allora potremmo pensare a uno di questi uomini del Medioevo, magari si chiama Jacopo e vive nel contado di Firenze. Ha raccomandato al suo santo taumaturgo (non solo flagello dei mori!) la vita del primogenito colpito dalla peste. Il figliolo guarisce e Jacopo mantiene la promessa di recarsi in pellegrinaggio a Santiago. Va dal curato e gli fa benedire il bastone, la bisaccia, il mantello. La mattina della partenza la vecchia mamma, la sposa, i figli lo abbracciano e lo baciano; piangono perché non è detto che lo vedranno tornare. Jacopo risalirà la via Francigena, attraverserà la Provenza, valicherà i Pirenei; ancora 900 chilometri e sarà a Santiago.
Per noi cittadini di un’Europa ancora un po’ parziale, sarebbe come decidere di viaggiare a piedi in Romania, passando per l’Albania e magari la Bulgaria, i cui abitanti sono, a sentire i telegiornali, piuttosto violenti e arretrati. Ma il nostro pellegrino parte lo stesso.
Come un don Chisciotte
Oggi andare a Santiago non fa più paura. Siamo assicurati, tecnicamente equipaggiati e gli spagnoli sono latini come noi. Senza grazie da impetrare sono partita: bici, treno, nave, fino a Barcellona; poi su verso i Pirenei a cercare proprio il passo di Somport, quello che attraversavano i pellegrini italici. Oltre mille chilometri in bici, di strada vissuta, a volte anche imprecando per la fatica, il calore, la disidratazione e ridendo felice di me stessa e delle sofferenze che imponevo alle mie poco allenate membra. Mi sentivo un po’ come don Chisciotte ammonito dell’assennato Sancho: «Meglio sarebbe tornarcene al nostro paesello, ora che è tempo di mietitura e di badare alla campagna, smettendo di andare da Cecca a Mecca o, come dicono, per vino alla fontana». Incalzata, divertita e accompagnata dai suoi rimproveri, ho vagato fra le colline dorate d’Aragona, sfidata di lontano da giganteschi mulini a vento; sono passata per i villaggi della Navarra brulicanti di gente allegra, vestita di rosso in un giorno di festa, e per la Rioja coltivata a vigne; ho attraversato la meseta che si inerpica a Burgos in terra di Castiglia e per centinaia di chilometri ti ingoia nella sua vastità. Infine, dopo l’ultima faticosa arrampicata del monte Cebreiro, mi sono affacciata sulle verdi vallate della Galizia, verdi come una promessa mantenuta quando dal Monte della Gioia si scende ormai volando per entrare a Santiago.
Finis terrae
Poco oltre Santiago finiva il mondo. Jacopo, barba lunga, volto smagrito, compie il rito del rogo dei vestiti laceri usati nel cammino, seduto su una roccia di Finis Terrae, assieme a compagni incontrati per strada. Ha trovato sulla spiaggia la conchiglia che appenderà allo zaino come una medaglia al valore.
Guardano il tramonto sull’oceano, scrutano l’orizzonte: se siamo arrivati fin qui, cosa ci vorrà per superare le colonne d’Ercole, aprire nuove rotte, scoprire mondi nuovi pieni d’oro e di spezie, realizzare utopie, diffondere il Vangelo? Solo qualche secolo e i Padri Pellegrini fonderanno gli Stati Uniti d’America, milioni di Africani diventeranno i pellegrini di una rotta dolorosa di sola e ineluttabile andata. I pellegrinaggi, in un’ Europa religiosamente frammentata, perderanno un po’ alla volta il loro smalto, ma qualcosa di quello spirito si espanderà alla scoperta e, racconta la storia, allo sfruttamento del mondo.
Pellegrini e stranieri come Santiago
Dopo l’estatico disorientamento per le lande desolate dell’Aragona, il mio cammino si è congiunto con quello che scende da Roncisvalle, il più cliccato nei siti, il più pubblicizzato dagli enti del turismo. Un esercito di camminanti in formazione scomposta ha interrotto quell’ebbrezza di solitudine e silenzio: tutti diretti verso ovest in faccia al vento rigorosamente contrario che spazza la meseta. Sempre meno riluttante mi sono lasciata immergere in un «bagno di umanità», ognuno andava a depositare qualcosa in quella tomba, forse vuota, che ci aspettava alla meta.
Varcato finalmente il Portico della Gloria, si passa zoppicando davanti a una buia cappella laterale dove la statua di Santiago dal suo cavallo bianco infilza saraceni, attorno a lui corpi sventrati e decapitati. Due pellegrini lungo il cammino mi avevano suggerito l’ipotesi di una inconscia rivalsa del mondo occidentale in epoca di dichiarato «scontro di civiltà». Per la strada ho incontrato anche mistici visionari, hippies nostalgici, stralunati seguaci di buffe dottrine esoteriche, ma di crociati neanche l’ombra.
Tante persone, quello sì, di ogni età e provenienza, desiderose di sperimentare un modo diverso di viaggiare e di uscire dalla quotidianità alla scoperta dell’altro, dell’altrove, dei mille volti dell’umano e del divino. Il Santiago che ci figuravamo aspettarci alla meta era più simile forse a un poco iconografico pescatore di Galilea, naufragato a bordo di una carretta del mare come tanti anonimi stranieri dei nostri giorni.
Pellegrino significa proprio straniero, «colui che viene da fuori le mura». Il pellegrinaggio è l’atto di rendersi stranieri. Tutti i viaggi ci rendono stranieri togliendoci dal nostro luogo, ma il pellegrino di oggi non apre nuove rotte, non traffica in reliquie, non va per affari e nemmeno per turismo: lungo la strada gli occhi puntano fanatici in avanti e seminano incoscienti musei, gallerie, siti storici e archeologici. Il pellegrinaggio è un estraniamento cosciente e volontario, il viaggio per il viaggio, il cammino per il cammino. Tra il mattino e la sera sta la strada.