Ancora sui delitti e sulle pene
Ancora sulla pena: perché?
La pena resta sempre un tema attuale.
Non è da molto tempo che proprio in questa rubrica ce ne siamo occupati, soffermandoci sulle diverse funzioni che essa può assumere (cfr. in Madrugada, n. 63, settembre 2006).
Vorrei, ancora una volta, tornare sullo stesso argomento; forse perché sollecitato, sia pur implicitamente, da un indiretto senso di completezza, che mi costringe spesso a riprendere percorsi già sondati e verificarne le ulteriori e possibili diramazioni; forse, viceversa, perché incoraggiato dall’estrema importanza della discussione, così lontana, probabilmente, dalla nostra vita presente, quanto così vicina, allo stesso tempo, nelle paure e nei sottintesi cui sembrano alludere molti dei dibattiti giornalistici e televisivi di questi ultimi giorni.
Del resto, come si diceva poc’anzi, la pena resta sempre un tema attuale, dal momento che è sempre attuale e incombente la percezione e l’esigenza diffuse di una sua pronta e rapida comminazione, specialmente a fronte di noti e luttuosi episodi di cronaca. Quasi che soltanto il gesto, in sé e per sé del tutto (e solamente) rituale della comminazione solenne e dell’esecuzione effettiva della pena stessa potesse ristabilire automaticamente le sicurezze nelle quali pensavamo (e pensiamo tuttora) di poterci soddisfare.
La pena emerge, dunque, in tutta la sua attualità.
E se di pena si deve parlare, vi è la frequente convinzione che di essa occorra parlarne non solo in termini di matematica certezza, ma anche di implacabile decisione, dal momento che, se vuole sopravvivere all’aggressione che viene fatta ai suoi valori e ai suoi beni primari, un gruppo sociale deve reagire compatto e veloce, estinguendo per il tramite del malum passionis il malum actionis e con ciò ridando voce e forza alla propria identità giuridica.
Ma come dovrebbe essere il malum passionis?
La risposta tradizionale è semplice: la sofferenza tramite l’esclusione, ossia l’afflizione derivante, in primo luogo, dalla pena detentiva, intesa quest’ultima come inserimento del reo in una comunità separata, nella quale espiare in solitudine le colpe commesse, al di là, pertanto, dei diritti e delle libertà di cui può godere soltanto chi si conforma alle regole dell’ordinato vivere civile.
Il dubbio che da tale quadro emerge in chi scrive è il seguente: fino a che punto questa visione può essere accettabile? Fino a che punto si può punire un atto di autoesclusione (il crimine è, innanzitutto, un gesto di esplicita separazione dal gruppo sociale) con un ulteriore atto di esclusione?
La prigione: la tentazione del «terzo strike»
Appare chiaro che il tema di cui vuole occuparsi questa seconda e nuova riflessione sulla pena non ricomprende soltanto la riflessione già espressa in ordine alle diverse funzioni (retributiva, rieducativa e/o riparatrice) che le si è soliti affidare nel contesto politico-legislativo.
In questo contesto, infatti, intendo occuparmi delle ragioni entro le quali possa definirsi come proporzionale e adeguata la scelta di individuare nella pena detentiva il modello per antonomasia della risposta sociale ai fenomeni delittuosi, ovvero, in ogni caso l’opzione di concentrare su declinazioni più o meno afflittive dello stesso modello tutta la fiducia collettiva circa la bontà di una soluzione sanzionatoria.
Da dove nasce questa perplessità? Il motivo è presto detto.
La perplessità nasce, per così dire, dagli effetti, non certo positivi, che sul piano della politica legislativa potrebbero sortire gli slogan, sempre più frequenti anche in Italia, sulla «tolleranza zero» e sui suoi presunti benefici, analogamente a quanto accaduto in anni non sospetti negli Stati Uniti d’America, sull’onda del sensazionalismo mediatico che aveva preso spunto proprio da alcuni particolari fatti di cronaca.
Nascono, in buona sostanza, dalla paura del «terzo strike», ossia di quel particolare meccanismo, introdotto nella legislazione d’Oltreoceano nei primi anni ’90 del secolo scorso, e finalizzato alla totale inabilitazione dei soggetti considerati socialmente pericolosi, a tenore del quale la condanna per il terzo reato consecutivo conduce direttamente all’ergastolo, senza possibilità di sconti.
La dinamica e i pericoli di un simile approccio sono chiaramente illustrati da un’acuta studiosa del processo penale: «L’inabilitazione dei soggetti pericolosi costituiva, d’altra parte, il fondamento degli elevati minimi di pena detentiva previsti in genere per i delinquenti abituali. Essa giustificava in particolare le cosiddette leggi three stikes and you’re out (tre sbagli e finisci fuori), così battezzate per sottolinearne il parallelismo con la regola del gioco del baseball che vuole che il battitore abbandoni il campo dopo il terzo tentativo (consecutivo) fallito di colpire la palla».
Ancora: «Senza scopi rieducativi, la cui efficacia viene ormai drasticamente respinta, il carcere diventa nella nuova prospettiva luogo di segregazione, dove i detenuti lavorano soltanto se ciò risulta redditizio, ossia secondo strette logiche di mercato, mentre ogni loro esigenza di imparare un mestiere o di istruirsi è accantonata, così come lo è la dignità del lavoro e di ogni altra attività volta al reinserimento in società, per il quale i fondi pubblici sono sempre più scarsi» (così Elisabetta Grande, Il terzo strike. La prigione in America, Palermo, 2007).
È forse questo il modello della pena detentiva maggiormente adeguato e proporzionale?
Vero è che esso è semplice, netto, inequivocabile e certo; si potrebbe dire, con le parole di Rimbaud, che esso è «semplice, come una frase musicale»; salvo ricordare che il poeta francese, utilizzando questo verso, alludeva alla guerra, al gesto bellico, a un contegno che, in questo contesto, e nella sua immediata semplicità e facilità, equivale alla soluzione più facile e scontata: la lotta contro il crimine, d’altra parte, viene spesso associata alla guerra.
Una diversa prospettiva: l’argine costituzionale
Vi sono motivi per proporre soluzioni diverse?
Occorre ricordare, probabilmente, che nel nostro Paese sono state approvate, di recente, due leggi che sembrano preludere proprio all’accoglimento diffuso della prospettiva del «terzo strike»: la legge n. 251/2005 (meglio nota come legge «ex-Cirielli») e la legge n. 49/2006 (meglio nota come legge «Fini-Giovanardi»), la prima volta a inasprire le pene per il recidivo o plurirecidivo (con connessa riduzione della possibilità, per gli stessi, di avvalersi delle misure alternative al carcere, quali la semi-libertà, l’affidamento in prova, la detenzione domiciliare o i permessi premio), la seconda finalizzata a rendere più dura, sempre sotto il profilo detentivo, la risposta sanzionatoria nei confronti dell’uso e dello spaccio di sostanze stupefacenti.
La nostra Costituzione, tuttavia, pone un argine severo alla diffusione sistematica di simile politica sanzionatoria, non solo per la ragione che essa si schiera a favore della funzione rieducativa della pena (intesa, tuttavia, non come unico scopo della pena, bensì come criterio orientativo sui tempi e i modi della sua esecuzione), ma anche per la ragione che essa indica comunque quale debba essere l’orizzonte riabilitativo di tale rieducazione.
Se è vero, cioè, che la pena, in base all’art. 27, deve tendere in ogni caso alla rieducazione del condannato, è altrettanto vero che, in base all’art. 3, è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscano la piena partecipazione dei cittadini alla vita del Paese; sicché, comunque sia concepita, la pena non può avere connotati escludenti, «pena» (si perdoni il gioco di parole) il rischio di contraddire alla finalità ultima del trattamento sanzionatorio, che, in quanto comportante un’azione da parte dei pubblici poteri, non può che porsi in una prospettiva risocializzante e antidiscriminatoria.
In questa stessa ottica, quindi, deve ribadirsi un’ulteriore idea, secondo cui la circostanza che il carcere possa ben definirsi nell’ambito di un ordinamento «separato» (quello penitenziario, caratterizzato da regole e principi anche diversi da quelli vigenti nell’ordinamento delle persone «libere») non impone che tale separatezza significhi segregazione, esigendosi piuttosto la previsione di procedimenti e regole rivolti al graduale reinserimento sociale del condannato.
La sola punizione, sic et simpliciter data, non è sufficiente.
Anche nel nostro ordinamento costituzionale, quindi, non è logico punire l’esclusione con un successivo ed esclusivo atto di rinnovata esclusione.