Pietro, dove vai?

di Stoppiglia Giuseppe

Quel che resta del Concilio Vaticano II

Dice Gesù:
«Chiunque parlerà contro
il Figlio dell’uomo
sarà perdonato, ma chi avrà parlato
contro lo Spirito Santo
non sarà perdonato,
né in questa vita,
né in quella futura».
(Matteo 12,32)

«Non temere di restare sconosciuto
agli uomini,
ma di non conoscerli».
(Confucio)

Parole, ricordi e contrasti

La donna dei piani era già sulla porta con il carrello della biancheria. Le dissi: «Non si preoccupi, rimango ancora stanotte e adesso vorrei riposare: è già tutto in ordine». Lei mi sfoderò un largo sorriso e si avviò all’assalto del bagno con un plotone di detersivi. Ripetei inutilmente la mia richiesta in tutte le lingue del globo a mia disposizione (che sono pochissime), ma la donna continuò a scuotere il capo sorridendo, senza smettere di strofinare energicamente i recipienti. «Turca» – mi dichiarò puntandosi l’indice al petto. Cioè curda, come seppi dopo. Allora feci segno coi gesti di volere dormire e lei sgombrò, sempre con un attonito sorriso.

Sul comodino, prima di uscire, aveva lasciato un cioccolatino (che non faceva parte del corredo per gli ospiti, come in altri alberghi): un dolce modo di dire grazie per il lavoro risparmiato.

«Non vedo» – dice Nicola con una punta di sarcasmo (e di virile risentimento) – «come puoi mettere sullo stesso piano tutte le donne, quale che sia la loro condizione sociale. Io conosco tante donne realizzate, professionalmente attive e con numerosa prole, che non mi sembrano affatto succubi di padri, figli, fratelli e mariti. Sono signore della borghesia, con la donna di servizio ai loro ordini, la macchina in garage, la casa in campagna, la villa al mare e il marito con Mercedes. E non tutte votano necessariamente per i partiti conservatori: ce ne sono dei DS, anche. Con la donna, la domestica: a ore, a mezzo servizio o a tutto servizio. Cosa può esserci in comune, salvo l’utero e le ghiandole mammarie, tra le filippine e le loro padrone romane, tra le borghesi milanesi e le donne delle steppe russe che sono al loro servizio?».

«Noi non siamo popolo, andiamo verso il popolo» – diceva Tiberio, riecheggiando Pavese. «Si può diventare popolo tra i poveri e abitare nei quartieri più popolari e più squallidi, ma non si può mai venire meno alla propria origine, alla propria educazione, alla propria cultura, alla propria dignità. L’intellettuale non può che restare se stesso altrimenti è sprecato per la società, per la chiesa. Aveva ragione Pier Paolo Pasolini a dire che il tuo gesto è il karakiri dell’intellettuale. Ti riduci così ai margini della società senza che nessuno ti dica grazie. Non ti puoi confondere con i rifiuti umani, con i relitti. La cultura è un privilegio di classe? Non è colpa tua. È un processo lungo, di generazioni. Quello che tu hai fatto è pazzesco. Non so come puoi sopportare la volgarità, la grettezza, l’ignoranza di gente che non ti può capire e che cerchi di elevare a te, ma loro ti abbassano al loro proprio livello. Anche la tua affabilità viene mal compresa».

La chiesa e il regno di Dio

Il prete è solo l’uomo che custodisce il recinto del sacro o è anche l’uomo coinvolto nelle vicende delle persone, degli avvenimenti della storia, con un’attenzione costante alle coscienze, alla loro evoluzione umana, spirituale e culturale?

La sua funzione è quella di rivolgere il pensiero principalmente a chi soffre, a chi vive nell’indigenza, a chi va risollevato da una condizione di subalternità e di emarginazione o seguire e osservare scrupolosamente un ordine dottrinale?

Richiamandosi a Gesù di Nazareth, portatore di umanità, di concretezza, di solidarietà e non solo di liturgiche assoluzioni o di ipocrite commiserazioni, la scelta preferenziale del sacerdote dovrebbe essere chiarissima.

Quando vengo interpellato per il mio impegno prevalente nel sociale (un uso improprio di categorie astratte), rispondo, se pur indispettito, che nel Vangelo ho trovato una sola volta la parola Chiesa, mentre in ogni pagina, Gesù parla del Regno di Dio, affermando che costruire questo Regno è la volontà del Padre. Dire perciò a un povero: «Alzati e cammina», senza darsi da fare a costruire delle relazioni sociali più giuste, è una vergognosa ipocrisia.

Si percepisce in giro un certo smarrimento e non poche perplessità per le ultime prese di posizione (qualcuna incomprensibile) del Papa o su qualche documento (antistorico) della Curia romana.

C’è chi addirittura sussurra che stiamo attraversando una vera notte della chiesa. Una chiesa ridotta a religione individualista, fatta di obbedienza alla legge e a forme devozionali, piuttosto che una comunità spirituale, parte viva dei credenti in Cristo.

A tale proposito, mi viene in mente lo scontro tra Gesù (appena dodicenne) e i rabbini nel Tempio. Lo scontro tra chi vuol dare alla parola lo spessore del rimando, della promessa inafferrabile di Dio, e chi invece sostiene la rigidità del segno, l’interpretazione formalistica, il valore della legge nel suo significato letterale. La legge è parola/legge, ossia promessa di futura giustizia, mai giustizia realizzata.

Violando il principio della rigidità letterale, Gesù dice al direttorio rabbinico che il figlio dell’uomo è padrone anche del sabato. Sostenendo che si può salvare l’asino caduto nel fosso nel giorno di sabato, Gesù sconfigge la rigidità farisaica dei rabbini.

La notte per la chiesa, di per sé, non c’è mai, se crediamo che essa sia la testimonianza della Pasqua di Gesù, vero Dio e vero uomo. Purtroppo ci sono le notti dell’istituzione. E questa è una notte dell’istituzione, dovuta all’affossamento, ormai compiuto, del messaggio straordinario del Concilio Vaticano II.

La profezia del Concilio era legata principalmente alla scoperta del primato della Parola di Dio, oltre ogni gerarchia umana, cristiana, cattolica. Oggi, purtroppo, sembra che abbia ripreso vigore la rigidità del cammino curiale, dove in virtù di un’interpretazione esclusivamente pastorale del Vaticano II, il concilio, nella sostanza, non ha mutato nulla, esprimendo così il vero senso della tradizione.

Obbedienza e libertà evangelica

La questione, legata al «Summorum Pontificium», non gravita attorno alla Messa in latino, come impropriamente sostengono i media, ma all’interpretazione del Concilio. Una risposta, per me incomprensibile, a fronte del bisogno profondo di una chiesa più mistica, non più clericale, di fede e di amore vissuti, aperta alla scoperta del vero volto di Dio, che è amore.

Personalmente vivo da sempre nell’obbedienza alla gerarchia. Un’obbedienza, però, che mi ha educato alla libertà evangelica. Questa obbedienza la vivo con un senso critico profondo, perché leggendo il vangelo trovo che la Parola di Gesù è differente e che nella chiesa gerarchica il vangelo spesso non esiste.

Se la chiesa deve accompagnare l’uomo nel suo cammino, è chiaro allora che la figura di chi accompagna è diversa da quella di chi dice dov’è la meta del viaggio. Risulta molto più difficile accompagnare un viandante, che attenderlo alla meta, che in qualche modo avevo preventivato per lui. Confesso che mi trovo più a mio agio nel frequentare il dolore, la sconfitta dell’uomo piuttosto che il suo riscatto.

Mi sento più vicino all’altro nel momento dello scacco, che in quello del successo. Vedo, infatti, molto più dolore che gioia in questo mondo e dunque preferisco i frequentatori del dolore ai frequentatori della gioia, perché i frequentatori del dolore hanno la possibilità di entrare in una relazione di comprensione autentica con gli altri, invece di vendere promesse di speranza, di felicità, che si traducono, in definitiva, in moduli di sopportazione.

Il dolore si allevia se patiamo assieme, e solo dal soffrire insieme possono nascere la comunicazione e la speranza, non dal dire «sopporta che un giorno ti verrà retribuito». Questo è mercato, non è fede.

Sperare è accogliere il mistero

La speranza del credente è responsabilità: spazzare via gli ottimismi mascherati di speranza, confrontarsi col tragico. Dire che i giovani sono speranza del mondo e della chiesa è retorica. Avere vent’anni non è essere pieni di speranza. Semmai il problema è se gli adulti sanno dare speranza. Una prassi di speranza è la responsabilità nella vita quotidiana, non solo in contesti speciali.

La speranza ha la stessa difficoltà della fede. Lo Spirito Santo tiene insieme ciò che è distante, diverso, tiene la comunione. La rivelazione cristiana è unità di cose inconciliabili: Dio-uomo, crocifisso-risorto, amare chi non è amabile. Il cristiano crede nell’incredibile, spera l’insperabile, come Abramo (Rom. 4,18).

Come si può ascoltare e accogliere il dolore del mondo? Solo attraverso il dialogo. Il dialogo è l’assunzione di quello che è un altro, di quello che pensa l’altro. Accogliere non vuol dire tollerare, essere educati. Accogliere vuol dire ipotizzare che l’altro abbia un tasso di verità superiore al mio, anche se non capisco per quale ragione lui possa essere nel vero.

Se ci mettiamo in un atteggiamento di accoglienza dell’altro, può nascere indubbiamente il dialogo, che non sarà certo una discussione per metterci d’accordo e arrivare a una sintesi.

Avendo ospitato dentro di me l’altro parere, posso interrogare quello che resta comunque un mistero. La domanda si giustifica solo se ha a che fare con il mistero, non se richiede una risposta. Quando si ha a che fare con il mistero non ci si mette d’accordo: si va a indagare assieme. Se c’è una religione che pretende di dire la verità, non mi siàparli più di mistero, perché questo si è dissolto. Quando si fa questo, si compie il peggiore dei delitti, si uccide Dio. Perché Dio è altro da me. Se è come me, posso farne anche a meno.

Il coraggio del Cristianesimo è quello di non solo sfiorare, ma di entrare nel mondo, senza lasciarsi schiacciare o identificare dal mondo.

Occorre andare nel mondo, senza aver paura, infangarsi le scarpe e alla fine della storia vedere, non chi ce le ha pulite, ma chi ce le ha meno sporche, per essersi compromesso pesantemente.

Date senza sperare contraccambio

«Nessuno fa niente per niente». Questo dogma, così di moda nel nostro costume, è falso e micidiale, ma è il più creduto e obbedito nella società attuale. Un presidente del consiglio ha volgarmente insultato chi non fa soprattutto il proprio interesse. Ma la regola ufficiale di una morale capovolta, è che ognuno pensi solo a se stesso e alla sua stretta cerchia. Il male d’Italia è quel dogma, celebrato nei più volgari modelli vincenti. Categorie e corporazioni sono un feroce egoismo rafforzato.

Dov’è la coscienza del bene comune da costruire assieme? Manca la politica, cioè la socialità. Chiamano politica gli affari propri. Il berlusconismo è molto più vasto dell’uomo di Arcore, ma costui è nel contempo un frutto e un modello nefasto, non sconfitto.

La verità è vivere con e per gli altri. «Nessuno vive per se stesso» (Rom. 14,7). Chi dimostra oggi luminosamente questo respiro indispensabile? L’eresia rispetto a quel dogma, è il vangelo: «Date senza sperare contraccambio» (Luca 6,35).

Anche chi non segue il vangelo può vedere che il capitalismo è sbranamento reciproco, nei rapporti piccoli e grandi. Toccare le tasche dei ricchi è sacrilegio. I poveri sono corrotti e plagiati dai ricchi e votano al loro servizio.

La televisione imbonitrice lavora a questo fine da decenni. La pubblicità spaccia falsa felicità ai deboli. Il liberismo etico inquina la sinistra, poco meno della destra. Senza società solidale, di soci e non di rivali, ognuno muore, anche il ricco. Diciamo la verità e cerchiamo anche di farla. Se siamo in tempo.