Per un nuovo alfabeto dell’economia e della società

di Amoroso Bruno

La crescita economica è stata considerata indicatore dello sviluppo in modo incontrastato fino agli inizi degli anni Sessanta. L ‘economia capitalistica ha visto nella crescita il mezzo naturale d’incremento del profitto; le politiche di sinistra la consideravano la base di partenza per una migliore ripartizione sociale sia in Europa sia nel mondo. La stessa critica marxista non criticava l’obiettivo della crescita economica, né metteva in dubbio il carattere espansivo del capitalismo rivolto alla conquista di nuovi mercati e nuovi consumatori, ma giudicava troppo lenti i suoi tempi di espansione a causa delle sue ricorrenti crisi e troppo squilibrata la sua ripartizione geografica e sociale.

I limiti della crescita

Qualcosa avvenne alla fine degli anni sessanta: l’aumentata consapevolezza delle crescenti interdipendenze che si stavano verificando nel mondo, dovute sia a fattori oggettivi (ambiente, energia, migrazioni, guerre, ecc.) sia soggettivi (l’accrescersi della volontà politica dei governi e del movimento operaio di governare i movimenti dell’economia mondiale mediante il controllo delle tecnologie e della finanza). In questo clima di pensiero, riformista per la prima parte e, per alcuni aspetti, rivoluzionario per la seconda (le richieste di democrazia economica, socializzazione degli investimenti, ecc.), s’inserirono alcuni contributi conoscitivi che rafforzarono queste tendenze che rappresentarono l’inizio di quella oggi nota come mondialità. Tra questi è utile ricordare gli studi prodotti dal Club di Roma sui limiti della crescita che, mettendo al centro i problemi ambientali ed energetici, contestava la sostenibilità del modello di produzione e di consumo capitalistico e le possibilità di una sua espansione a livello mondiale. Nacque così la letteratura sulla fine dello sviluppo.

Dibattito su economia sostenibile

Il Club di Roma pose il problema di un uso più razionale delle risorse disponibili e di modelli di sviluppo capaci di ridurre gli sprechi. Questi contributi, accompagnati dalle richieste di riforma e innovazione nell’economia e nella politica, avanzate dal movimento operaio in quegli anni, e al rafforzarsi di forme diverse di mercato e sistemi politici (i sistemi di welfare in Europa, i sistemi socialisti in Europa dell’Est e in Asia, le spinte indipendentiste dei paesi ex-coloniali e in America Latina) aprirono in tutti i campi un dibattito sul futuro del capitalismo e sui nuovi assetti dell’economia mondiale. Nacque così l’indirizzo di pensiero e delle politiche per la mondializzazione, cioè per la realizzazione di un sistema di economie sostenibili all’interno dei singoli stati ma aperte a forme di collaborazione e di dialogo per la soluzione dei problemi comuni.

Il dibattito nei paesi occidentali prese due direzioni:

il riconoscimento della non sostenibilità e riproducibilità del modo di produzione e di consumo capitalistico a livello mondiale, cioè fino a includere 6-7 miliardi di persone, e quindi il bisogno di tornare a forme di economie e di mercato sostenibili (mondializzazione). Questo poneva ovviamente problemi seri di riorganizzazione delle economie dei paesi industrializzati e occidentali;
riaffermare il modello esistente ma indicando nuove strade che ne consentissero la sostenibilità. Queste strade avevano al centro l’obiettivo del mantenimento dei livelli di benessere dei paesi occidentali e delle loro forme di gestione politica, sia nazionale sia internazionale, assunte come valori irrinunciabili. La soluzione a questo problema epocale fu trovata con il prevalere del secondo indirizzo e il lancio di una risposta diversa da quella della mondializzazione al problema della mondialità e della sostenibilità: la proposta della globalizzazione che da allora è stata perseguita con forza.

L’economia dell’usa e getta

Qual è il contenuto della globalizzazione rispetto ai problemi posti della sostenibilità e dello sviluppo mondiale? La risposta fu costruita mettendo la finanza e le tecnologie al centro dei sistemi industriali (la società della conoscenza). La spiegazione lucida ed esemplare di questa scelta fu fornita dai ricercatori del Club di Roma: «Quando gli economisti si resero conto di quanto fosse più facile dimezzare il ciclo di vita di un prodotto piuttosto che raddoppiare il numero dei consumatori, vennero a galla le idee più folli, come l’orologio da gettar via quando risultasse necessario ripararlo (che fu realmente prodotto), o l’automobile a perdere (a perdere almeno per un buon numero di ricambi facilmente sostituibili)».

La soluzione fu così trovata interrompendo il bisogno dell’espansione mondiale del sistema capitalistico, separando cioè la crescita del profitto dall’allargamento dei mercati, ma restringendone la sua area di crescita ai paesi capitalistici industrializzati. Da qui il progetto economico e politico dell’apartheid globale, capace di garantire la sostenibilità per il mercato di circa 800 milioni di individui, escludendo in modo permanente gli altri 6 miliardi di persone. Dagli anni Settanta si realizza così un piano di decrescita mondiale che vede abbandonati a se stessi i mercati dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, mentre la produzione e il consumo continuano a crescere sui mercati ricchi alimentando i profitti.

Questo progetto di decrescita ha funzionato durante circa quarant’anni. Lo dimostra il crollo delle economie africane e dell’America Latina, e il restringersi delle aree di benessere negli stessi paesi capitalistici con lo smantellamento dei sistemi di welfare, e la spinta conclusiva data ai sistemi socialisti dell’Est europeo.

Crisi dell’apartheid globale

L’ostacolo maggiore a questo programma di decrescita è venuto dall’Asia. I tentativi di bloccare queste economie, attuati con la crisi finanziaria della fine degli anni novanta e di destabilizzarne le economie mediante forme di integrazione dei loro mercati in quello capitalistico (l’inserimento della Cina nell’Organizzazione Mondiale per il Commercio), non hanno dato i risultati sperati. Al contrario. La forte crescita economica della Cina, dell’India e di tutti i paesi del sud est asiatico, l’effetto di trascinamento positivo che questa sta determinando sulle economie dimenticate dell’Africa e dell’America Latina, insieme alla crescente resistenza dei paesi arabi a servire da cuscinetto per i bisogni energeticiàdell’Occidente ha, dagli anni Duemila, mostrato le crepe e l’insostenibilità della globalizzazione. La risposta dell’Occidente a questa minaccia di fallimento del proprio piano di apartheid globale è violenta: ha inizio la terza guerra mondiale.

Conclusione

A questo punto pensatori occidentali ripropongono il problema della decrescita anche per l’Occidente, come unica via di uscita da quella che altrimenti si annuncia come una guerra prolungata e un collasso generale del sistema mondiale e dello stesso pianeta Terra. Una proposta di buon senso, sapiente e che si rivela consapevole del fatto che senza un cambio delle forme di vita (produzione e consumo) e il ritorno a forme di austerità nella vita quotidiana, il cambio richiesto è impossibile. La decrescita dovrebbe partire non dalle piccole buone azioni o dalle buone pratiche quotidiane, che ne sarebbero ovviamente la conseguenza naturale, ma dall’eliminazione di tutte quelle forme di produzione e consumo che rappresentano gli sprechi dell’Occidente: cioè forme di produzione a fronte delle quali non c’è un corrispettivo di produzione di beni e servizi utili ai cittadini. Quali? Ad esempio il settore della finanza, quello dell’industria militare, quello della prostituzione e della droga e del commercio degli organi, quelli rivolti alla creazione dei consumi e non alla produzione di beni utili come la pubblicità, ecc. Decantare le economie capitalistiche dell’Occidente da questi settori comporterebbe una forte decrescita, oltre la metà del PNL prodotto, senza che ciò intacchi il livello di vita delle famiglie e delle persone.

Questo comporterebbe due effetti epocali:

a) un crollo dei redditi (della metà) che il mercato recupererebbe rapidamente mediante il dimezzamento automatico dei costi e dei prezzi di tutti i beni e servizi senza che quindi questo influenzi la vita quotidiana delle persone. Sapienti politiche statali ed europee potrebbero fare da accompagnamento a questo processo, così come si sono rivelate disponili per attuare parametri di stabilità e austerità per obiettivi di certo meno nobili;

b) la liberazione dal mercato del lavoro improduttivo di circa la metà della forza lavoro, che tornerebbe così a essere disponibile per una diversa distribuzione del lavoro nei settori socialmente utili e per la ricostruzione di un rapporto equo e umano fra tempo di lavoro, tempo per la vita privata e famigliare, tempo per la partecipazione culturale e politica. Altri effetti socialmente utili sull’economia nel complesso sarebbero una sua de-finanziarizzazione, relativa de-mercificazione, de-istituzionalizzazione di numerose funzioni oggi affidate allo stato e al mercato, con la ripresa di forme più sane di integrazione tra stato e società civile nei settori chiave del welfare come la salute, l’istruzione, la vita famigliare, l’assistenza e l’accompagnamento per anziani e bambini.