Lichtungen, radure
Prove tecniche di orientamento
E chiese al vecchio dammi il vino, ho sete sono un assassino
Nel frattempo avranno scritto di tutto, ma mi rimane impressa quella faccia da vecchio spaventato, mentre gli viene spiegata la dinamica dell’esecuzione. Subito le testate on-line riportano i primi commenti: giustizia è fatta, dice l’amministrazione americana; è una notizia tragica, fa eco il Vaticano. Quando esce questo numero di Madrugada conosceremo già alcuni degli effetti della morte di Saddam Hussein: per ora osserviamo anche questa vicenda, come se la storia fosse lontana, con gli occhi ottusi della cronaca, se non di un nero gossip.
Rimarrà però un fatto: la mancanza di orientamento. Mi chiedo infatti se ci sia un senso. Se ci sia una direzione da seguire, una corrente carsica di questioni necessarie da scovare e pedinare. Le domande che in realtà potrei scoprire per strada o nelle aule scolastiche sono altre: quando s’ammoscia la curiosità morbosa di ascoltare le imbarazzanti risposte delle pupe e di osservare lo sguardo dei secchioni perso in altrettante imbarazzanti cosce, quando col telegiornale delle otto tace la selva dei pacchi mercanti ereditieri e solo blob sembra offrire una soluzione, quando insomma smettiamo di essere scimmie ammaestrate dal Divin Elettrodomestico, qualche cosa – mi dico – deve pur emergere dalle teste liberate, qualche domanda deve giacere sotto le cene silenziose delle coppie, o colorate dalle voci dei bambini, tra un conto e una bolletta, tra un domani che tempi hai e un l’hai già preparata la cartella. A che cosa pensa la gente? A che cosa pensiamo? Ci è permesso pensare, dopo aver visto Saddam in tv?
Aspettando i tartari
«Ma deve venire, verrà se resisto, a sbocciare non visto» canta Rebora. E ognuno ci metta quel che vuole in questo spazio lasciato vuoto dal poeta: chi o cosa deve venire? Un uomo, un dio, un significato? «Verrà d’improvviso, quando meno l’avverto». Quasi non si possa essere pronti al senso. Quasi che esso non sia disponibile alla-mano, come avvertiva Heidegger. Insomma il senso non ha a che fare col nostro compulsivo cercare tra i tasti del telecomando. E quasi a sovvertire la conclusione amara di Montale, – «codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» -, potrebbero essere solo le sillabe storte e secche come un ramo di qualche poeta o scrittore a illuminare piccoli tratti di sentiero, brevi Lichtungen.
Perché se è vero che siamo ubriachi di share, è anche vero che ovunque si moltiplicano gli interventi pubblici di scrittori, pensatori, filosofi, poeti. Associazioni, comuni, chiese chiamano a raccolta la gente attorno a chi tenta una risposta, per quanto particolare e scabra. Penso a Roberta de Monticelli, a Pasqualotto, ad Alberto Maggi, alcune delle presenze a Padova nell’ultimo mese o a Rubem Alves,visionario e affabulatore, a Bassano, per rafforzare i sogni di Macondo.
Mansarde radicali
Pessoa prende avvio dal medesimo nostro spaesamento, ma su questo è, al solito, crudamente scettico: «Io, che non ho nessuna certezza, sono più certo o meno certo? No, neppure di me… (…) Il mondo è di chi nasce per conquistarlo e non di chi sogna di conquistarlo, anche se ha ragione. Ho sognato più di quanto Napoleone non abbia realizzato, ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo, in segreto ho fatto filosofie che nessun Kant ha mai fatto».
Questi sognatori chiusi in mansarde, la cui voce Pessoa dichiara troppo flebile, hanno pur sempre qualcosa da dirci e la gente, quando scorda la costrizione a essere massa, vede giusto quando va in cerca del loro parlare.
David Grossmann, nel discorso di commemorazione di Ytzhak Rabin pronunciato a Tel Aviv, affronta coloro che parrebbero nati per conquistare il mondo, Israele, e scrive: «Com’è possibile che un popolo dotato di energie creative e inventive come il nostro, che ha saputo risollevarsi più volte dalle ceneri, si ritrovi oggi, proprio quando possiede una forza militare tanto grande, in una situazione di inerzia e di impotenza? Situazione in cui è nuovamente vittima, ma questa volta di se stesso, dei suoi timori, della sua disperazione e della sua miopia. Uno degli aspetti più gravi messi in luce dalla guerra è che attualmente non esiste un leader in Israele. Che la nostra dirigenza politica e militare è vuota di contenuto». Con la sua fionda, quella di Davide, scaglia parole pesanti: il peccato, in senso lato, ma probabilmente anche in senso stretto, della leadership israeliana consiste nell’essersi concentrata sulla «paura da un lato e la creazione di ansie dall’altro, il miraggio della forza, l’ammiccamento al raggiro, il misero commercio di tutto ciò che ci è più caro». Grossmann parla a partire da quel tragico non-luogo che è la perdita di un figlio: parte dal dolore, fatto che se non altro comporta «una certa lucidità e chiarezza di vedute, per lo meno per quanto riguarda la distinzione tra ciò che è importante e ciò che è secondario, tra ciò che è possibile ottenere e ciò che è impossibile». E invita Olmert a osservare il comune dolore nel quale giacciono questi due popoli in guerra e ad ascoltarne il comune lamento, per poter poi interloquire con tutti i moderati.
Grossmann, uno scrittore. Di alta levatura, certo, ma comunque una persona non esattamente politica. Dal suo abbaino però coglie dall’alto quel che conta, e fornisce una risposta eminentemente politica. Forse il ritornello è sempre lo stesso: spegnere la TV dopo il Carosello. Magari anche prima, giusto per prendersi il tempo di ascoltare chi canta, ancora con Pessoa, «la canzone dell’Infinito in un pollaio», chi «sente la voce di Dio in un pozzo tappato».