A piedi nudi sulla terra rossa

di Stoppiglia Giuseppe

Sotto il cemento, la sabbia

«Il nostro spazio è sempre la vita
o qualcosa di più, mai di meno».
(Ernest Bloch)

«L’universo non contiene atomi,
contiene storie».
(Jorge Luis Borges)

L’angelo della morte

Vediamo i nostri vecchi declinare. Spesso affondano nella mezza morte, come chi s’inoltra nella nebbia, o chi, cedendo, cessa di dibattersi nel gorgo.

Sottratti al cerchio della comunicazione, prigionieri di una distanza immateriale, energia esaurita e spenta, ci appaiono scatole vuote, volti senza persona, diventano per noi condannati che predicono la nostra possibile condanna.

Oggetti passivi di cura e di pena, perduto il discorso umano, sono infanti che crescono all’indietro, verso il rovescio del nascere. La loro lunga passione ci pare abbandonata da Dio. Ben più di tre sono le loro infinite ore sulla croce.

Eppure, essi sono mistero di sostanza dietro l’impenetrabile apparenza. Anche nell’estrema decadenza, la vita impedita è vita umana. Servirli è una pietà impotente, che forse rivolgiamo a quel che potremo essere un giorno noi stessi, con orrore. Sono perduti e non perduti, sono lasciati a noi per prova e ammonimento. Preghiamo che l’ora del passaggio venga a loro pietosa. Che venga sorella e non nemica, come nemico è il loro stato presente, e che nessuna arte umana prolunghi quella morte spacciandola per vita.

Gli antichi, nella fede, chiamavano angelo della morte l’ospite invisibile, sgradito, dell’ora del decesso. Angelo, e non demonio, è la morte naturale non arrestata sulla soglia, non negata al corpo che amavamo, che ora vuol morire, come la sera si vuol dormire. Cari nostri vecchi già nell’ombra, immagine possibile del mio domani, come prego io per voi la luce nuova, pregate voi quell’angelo per me, che venga buono e sollecito, non ladro di coscienza, ma guida nel passaggio, alla mia ora.

Welby, della pietà

Alla notizia dei funerali negati a Piergiorgio Welby, sono rimasto sorpreso, scandalizzato e molto amareggiato. Privare un uomo, qualunque azione abbia commesso nella sua vita, del conforto e del perdono religioso, è una negazione plateale di quanto Gesù ci ha trasmesso e insegnato.

Sembra confermare quanto dice Michel de Certeau: «Ogni cristiano è tentato di diventare un inquisitore, come quello di Dostoevskij, e di eliminare l’estraneo».

Il rapporto con Dio ci disarma, non ci rende più intransigenti. La fede cristiana, se è vera fede, ha nella riconciliazione e nel perdono il suo centro.

Tutta la predicazione e la vita del Cristo testimoniano una volontà di smascherare l’ipocrisia dei poteri forti, compresi quelli di matrice religiosa, e incarnano un appello appassionato alle coscienze a lasciarsi trasformare dalla grazia di Dio.

La grandezza di Dio si trova non nell’essere il Signore del tutto, ma nel diventare prossimo di ciascuno! Solo chi è infinito può diventare intimo a miliardi di creature e conoscere quanto sta chiuso nel loro cuore. Dio si fa prossimo a ciascuno perché dà a ognuno la possibilità di affermare: «Dio, tu sei il mio Dio» (salmo 63,2). È l’umano desiderio di Dio.

Avere misericordia significa perciò spogliarci di ogni costume, di ogni rigidità, di ogni violenza, di qualsiasi tipo di contrapposizione, e andarci incontro con le mani colme delle nostre diversità, stringendo un patto tra noi che bandisca l’aggressione e il giudizio, accogliendo invece il mistero di senso che avvolge ogni vita umana.

Dio è sempre da scoprire, fino alla fine del mondo, e Cristo rimane nascosto, quindi straniero, diseredato, malato e povero.

Aver pietà e com-passione del prossimo è lo statuto costitutivo del cristianesimo. Bisognerebbe interrogarsi maggiormente e più approfonditamente sulla necessità e sulla forza di questo straordinario sentimento umano e spirituale.

L’indimenticabile Luigi Pintor parlava della pietas come di una parola che comprende la rettitudine e la tenerezza, qualcosa di netto e concreto, come gli atti di sorreggere e soccorrere qualcuno in difficoltà.

«Non c’è in un’intera vita qualcosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti al collo, possa rialzarsi».

Pietas, qualcosa che ti chiede di compatire, condividere la sorte dell’altro, di soffrire con lui, di partecipare a una sventura che è anche la nostra. Non solo come gesto individuale, ma come gesto sociale e collettivo.

Equivale ai gesti del serbare e tramandare, dello scampare qualcosa da dispersione e insensatezza. Per questo pietas non significa banale pietismo sentimentale e neppure generico senso di colpa, ma integrale senso di responsabilità, o meglio di corresponsabilità, riconoscendosi nell’interdipendenza della vita umana, nella sostanza deperibile che fa l’essere umano uguale all’altro essere umano.

Il dolore umano

So benissimo che non si può impedire a qualcuno di bestemmiare il nome di Cristo per legittimare nuovi steccati o per indire moderne crociate, ma quando lo si fa, ci si assume la propria responsabilità di aver trasformato il Dio vivente in un simulacro patetico, sordo e muto.

Certo non tutti sono cinici, ma tanta, troppa gente vive tirandosi indietro, rifugiandosi nel limbo, che è un inferno più dolce. Altri non sanno o non vogliono vedere il dolore (l’ingiustizia che lo causa) e lo rimuovono.

C’è invece chi guarda la sofferenza e fissa il dolore umano, interrogandolo. Sa che appartiene a ognuno e che, manifestandosi in maniera feroce, può lasciare ogni volta gli individui soli davanti alla storia, in modi imprecisabili e per un tempo indefinito.

So per certo che Gesù Cristo non è nato in una curia e che non dimora dentro al codice di diritto canonico o nelle scelte politiche di convenienza e di opportunità. È nato fuori città, proprio per poter raccogliere sulle sue spalle quelli che anche la sua chiesa butta fuori (i diversi, i suicidi, gli estranei, i divorziati, i preti sposati, gli omosessuali,) e portarli, come ha fatto per il ladrone sul Golgota, con Lui in paradiso.

La triste civiltà del denaro

Attraversando un piccolo centro rurale, bello e incantevole, adagiato ai piedi di una verde collina, può succedere di pensare subito: «È un posto meraviglioso, certamente invidiabile, ma come fa la gente a guadagnare soldi, qui?».

Questo interrogativo rivela un po’ quello che siamo e anche a quale tipo di civiltà apparteniamo. Non ci passa per la testa di domandarci: «In che modo le persone si prendono cura le une delle altre, in che modo si offrono a vicenda cibo e riparo?», ma ci chiediamo invece come procurarsi denaro in modo da poterlo barattare con cose che altri sanno fare (costruire abitazioni, produrre cibo, confezionare vestiti,). Dimostrazione di essere una forma di civiltà triste, piena di paura, in cui le fibre della fiducia sono state tagliate, recise. Non riusciamo a fare queste cose (edificare, produrre cibo, confezionare vestiti,) gli uni per gli altri in virtù di legami sociali, di legami familiari, di senso del dovere, per generosità o per innumerevoli altre ragioni, ma solo per denaro.

Se è questa la civiltà industriale, la civiltà dello sviluppo, stiamo camminando su una cattiva strada, perché il suo dinamismo e i suoi valori sono puramente meccanici.

Che prezzo spirituale paghiamo per quel po’ di abbondanza, di benessere, di piacere o di riduzione della fatica che ci viene offerto? Prezzo spirituale significa tempo trascorso in casa, tempo passato con la famiglia, tempo per meditare. È la differenza fra ciò che succede al nostro corpo e alla nostra mente quando camminiamo a piedi nudi sulla terra per diversi chilometri, rispetto a quando andiamo in macchina.

C’è una contabilità che nessuno riesce a tradurre in cifre. Nessuno può passare dalla retta visione alla retta consapevolezza, camminando nel vuoto come un individuo solitario, ma ha bisogno di costruire reti comunitarie e di legarsi a un luogo.

Nostra madre terra

La cultura indigena del centro e sud America sostiene che l’economia nasce dalla terra, non dal denaro. La terra infatti fa parte della vita stessa ed è un elemento fondamentale per la protezione dei territori.

«La terra – si legge nella dichiarazione finale del primo incontro internazionale dei popoli originari del continente – è la nostra madre, di lei viviamo e perciò la dobbiamo difendere sempre, non permettendo che nessuno privatizzi i nostri territori». Territori da intendere come i fiumi, le sorgenti, i mari, il mais, la medicina tradizionale, i luoghi sacri. La terra è legata alle organizzazioni di parentela, di vicinato, di artigianato, di fede religiosa. Conferisce stabilità alla vita dell’uomo. È il luogo della sua casa. È una condizione della sua sicurezza fisica. È il paesaggio e le stagioni.

Che cosa ha sostenuto i popoli indigeni per tutti questi secoli? Il linguaggio, la musica, i racconti. Non certamente le varie istituzioni. Senza una tradizione orale o una narrazione di storie che trasmettano la sapienza collettiva della comunità, non nasce un’identità, un senso di appartenenza.

Se la natura sta morendo è perché sta morendo la cultura. Se vogliamo perciò salvare la natura, dobbiamo far resuscitare una cultura che abbia sostanza e splendore, che possieda, cioè, i veri sentimenti e i racconti di cui abbiamo bisogno.

Si parla spesso di ritorno alla terra, ma in realtà nessuno di noi può tornare alla terra, semplicemente perché non l’abbiamo mai lasciata. «Abbiamo soltanto – come dice Derek Rasmussen – messo degli strati di cemento fra la terra e noi. Strati di cemento e di concetti e noi ci aggrappiamo ai concetti più che al cemento. Abbiamo ancora bisogno della terra, moriamo sulla terra, anche se la rinneghiamo o non le prestiamo attenzione».

Un popolo è fatto di persone che credono di appartenere a un luogo, oggi invece siamo persone che credono di possedere i luoghi. Le persone che si legano a un luogo se ne prendono cura, mentre quelli che non hanno radici, non lo fanno. Lo spiega bene Wackernagel quando afferma che «la globalizzazione sta creando un mondo di luoghi senza potere, alla mercé di poteri senza luogo».

Lasciatemi dire un’ultima cosa prima che la pioggia diventi una merce che loro potranno controllare e distribuire a pagamento. Loro sono quelli che non riescono a capire che la pioggia è una festa e non apprezzano la sua gratuità, pensando che ciò che non ha prezzo, non ha valore, che ciò che non può essere venduto non ha consistenza, per cui l’unico modo per rendere reale una cosa è metterla sul mercato.

«Verrà il giorno in cui vi venderanno anche la vostra pioggia. Per il momento è ancora gratuita e lascio che mi bagni. Celebro la sua gratuità e la sua illogicità» (Thomas Merton).

Qual’è l’antidoto per superare questa paura? La paura di scoprirci soli, di non aver nessuno al proprio fianco su cui contare?

Recuperare i valori non monetizzabili e cioè la natura, la parentela, gli amici. La parentela con i nostri fratelli e sorelle umani, come la parentela con la natura, gli animali, le piante, il vento, le creature, il mare, la terra. In altre parole la dimensione comunitaria e la gratuità.

«Il nostro spazio è sempre la vita
o qualcosa di più, mai di meno».
(Ernest Bloch)

«L’universo non contiene atomi,
contiene storie».
(Jorge Luis Borges)

L’angelo della morte

Vediamo i nostri vecchi declinare. Spesso affondano nella mezza morte, come chi s’inoltra nella nebbia, o chi, cedendo, cessa di dibattersi nel gorgo.

Sottratti al cerchio della comunicazione, prigionieri di una distanza immateriale, energia esaurita e spenta, ci appaiono scatole vuote, volti senza persona, diventano per noi condannati che predicono la nostra possibile condanna.

Oggetti passivi di cura e di pena, perduto il discorso umano, sono infanti che crescono all’indietro, verso il rovescio del nascere. La loro lunga passione ci pare abbandonata da Dio. Ben più di tre sono le loro infinite ore sulla croce.

Eppure, essi sono mistero di sostanza dietro l’impenetrabile apparenza. Anche nell’estrema decadenza, la vita impedita è vita umana. Servirli è una pietà impotente, che forse rivolgiamo a quel che potremo essere un giorno noi stessi, con orrore. Sono perduti e non perduti, sono lasciati a noi per prova e ammonimento. Preghiamo che l’ora del passaggio venga a loro pietosa. Che venga sorella e non nemica, come nemico è il loro stato presente, e che nessuna arte umana prolunghi quella morte spacciandola per vita.

Gli antichi, nella fede, chiamavano angelo della morte l’ospite invisibile, sgradito, dell’ora del decesso. Angelo, e non demonio, è la morte naturale non arrestata sulla soglia, non negata al corpo che amavamo, che ora vuol morire, come la sera si vuol dormire. Cari nostri vecchi già nell’ombra, immagine possibile del mio domani, come prego io per voi la luce nuova, pregate voi quell’angelo per me, che venga buono e sollecito, non ladro di coscienza, ma guida nel passaggio, alla mia ora.

Welby, della pietà

Alla notizia dei funerali negati a Piergiorgio Welby, sono rimasto sorpreso, scandalizzato e molto amareggiato. Privare un uomo, qualunque azione abbia commesso nella sua vita, del conforto e del perdono religioso, è una negazione plateale di quanto Gesù ci ha trasmesso e insegnato.

Sembra confermare quanto dice Michel de Certeau: «Ogni cristiano è tentato di diventare un inquisitore, come quello di Dostoevskij, e di eliminare l’estraneo».

Il rapporto con Dio ci disarma, non ci rende più intransigenti. La fede cristiana, se è vera fede, ha nella riconciliazione e nel perdono il suo centro.

Tutta la predicazione e la vita del Cristo testimoniano una volontà di smascherare l’ipocrisia dei poteri forti, compresi quelli di matrice religiosa, e incarnano un appello appassionato alle coscienze a lasciarsi trasformare dalla grazia di Dio.

La grandezza di Dio si trova non nell’essere il Signore del tutto, ma nel diventare prossimo di ciascuno! Solo chi è infinito può diventare intimo a miliardi di creature e conoscere quanto sta chiuso nel loro cuore. Dio si fa prossimo a ciascuno perché dà a ognuno la possibilità di affermare: «Dio, tu sei il mio Dio» (salmo 63,2). È l’umano desiderio di Dio.

Avere misericordia significa perciò spogliarci di ogni costume, di ogni rigidità, di ogni violenza, di qualsiasi tipo di contrapposizione, e andarci incontro con le mani colme delle nostre diversità, stringendo un patto tra noi che bandisca l’aggressione e il giudizio, accogliendo invece il mistero di senso che avvolge ogni vita umana.

Dio è sempre da scoprire, fino alla fine del mondo, e Cristo rimane nascosto, quindi straniero, diseredato, malato e povero.

Aver pietà e com-passione del prossimo è lo statuto costitutivo del cristianesimo. Bisognerebbe interrogarsi maggiormente e più approfonditamente sulla necessità e sulla forza di questo straordinario sentimento umano e spirituale.

L’indimenticabile Luigi Pintor parlava della pietas come di una parola che comprende la rettitudine e la tenerezza, qualcosa di netto e concreto, come gli atti di sorreggere e soccorrere qualcuno in difficoltà.

«Non c’è in un’intera vita qualcosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti al collo, possa rialzarsi».

Pietas, qualcosa che ti chiede di compatire, condividere la sorte dell’altro, di soffrire con lui, di partecipare a una sventura che è anche la nostra. Non solo come gesto individuale, ma come gesto sociale e collettivo.

Equivale ai gesti del serbare e tramandare, dello scampare qualcosa da dispersione e insensatezza. Per questo pietas non significa banale pietismo sentimentale e neppure generico senso di colpa, ma integrale senso di responsabilità, o meglio di corresponsabilità, riconoscendosi nell’interdipendenza della vita umana, nella sostanza deperibile che fa l’essere umano uguale all’altro essere umano.

Il dolore umano

So benissimo che non si può impedire a qualcuno di bestemmiare il nome di Cristo per legittimare nuovi steccati o per indire moderne crociate, ma quando lo si fa, ci si assume la propria responsabilità di aver trasformato il Dio vivente in un simulacro patetico, sordo e muto.

Certo non tutti sono cinici, ma tanta, troppa gente vive tirandosi indietro, rifugiandosi nel limbo, che è un inferno più dolce. Altri non sanno o non vogliono vedere il dolore (l’ingiustizia che lo causa) e lo rimuovono.

C’è invece chi guarda la sofferenza e fissa il dolore umano, interrogandolo. Sa che appartiene a ognuno e che, manifestandosi in maniera feroce, può lasciare ogni volta gli individui soli davanti alla storia, in modi imprecisabili e per un tempo indefinito.

So per certo che Gesù Cristo non è nato in una curia e che non dimora dentro al codice di diritto canonico o nelle scelte politiche di convenienza e di opportunità. È nato fuori città, proprio per poter raccogliere sulle sue spalle quelli che anche la sua chiesa butta fuori (i diversi, i suicidi, gli estranei, i divorziati, i preti sposati, gli omosessuali,) e portarli, come ha fatto per il ladrone sul Golgota, con Lui in paradiso.

La triste civiltà del denaro

Attraversando un piccolo centro rurale, bello e incantevole, adagiato ai piedi di una verde collina, può succedere di pensare subito: «È un posto meraviglioso, certamente invidiabile, ma come fa la gente a guadagnare soldi, qui?».

Questo interrogativo rivela un po’ quello che siamo e anche a quale tipo di civiltà apparteniamo. Non ci passa per la testa di domandarci: «In che modo le persone si prendono cura le une delle altre, in che modo si offrono a vicenda cibo e riparo?», ma ci chiediamo invece come procurarsi denaro in modo da poterlo barattare con cose che altri sanno fare (costruire abitazioni, produrre cibo, confezionare vestiti,). Dimostrazione di essere una forma di civiltà triste, piena di paura, in cui le fibre della fiducia sono state tagliate, recise. Non riusciamo a fare queste cose (edificare, produrre cibo, confezionare vestiti,) gli uni per gli altri in virtù di legami sociali, di legami familiari, di senso del dovere, per generosità o per innumerevoli altre ragioni, ma solo per denaro.

Se è questa la civiltà industriale, la civiltà dello sviluppo, stiamo camminando su una cattiva strada, perché il suo dinamismo e i suoi valori sono puramente meccanici.

Che prezzo spirituale paghiamo per quel po’ di abbondanza, di benessere, di piacere o di riduzione della fatica che ci viene offerto? Prezzo spirituale significa tempo trascorso in casa, tempo passato con la famiglia, tempo per meditare. È la differenza fra ciò che succede al nostro corpo e alla nostra mente quando camminiamo a piedi nudi sulla terra per diversi chilometri, rispetto a quando andiamo in macchina.

C’è una contabilità che nessuno riesce a tradurre in cifre. Nessuno può passare dalla retta visione alla retta consapevolezza, camminando nel vuoto come un individuo solitario, ma ha bisogno di costruire reti comunitarie e di legarsi a un luogo.

Nostra madre terra

La cultura indigena del centro e sud America sostiene che l’economia nasce dalla terra, non dal denaro. La terra infatti fa parte della vita stessa ed è un elemento fondamentale per la protezione dei territori.

«La terra – si legge nella dichiarazione finale del primo incontro internazionale dei popoli originari del continente – è la nostra madre, di lei viviamo e perciò la dobbiamo difendere sempre, non permettendo che nessuno privatizzi i nostri territori». Territori da intendere come i fiumi, le sorgenti, i mari, il mais, la medicina tradizionale, i luoghi sacri. La terra è legata alle organizzazioni di parentela, di vicinato, di artigianato, di fede religiosa. Conferisce stabilità alla vita dell’uomo. È il luogo della sua casa. È una condizione della sua sicurezza fisica. È il paesaggio e le stagioni.

Che cosa ha sostenuto i popoli indigeni per tutti questi secoli? Il linguaggio, la musica, i racconti. Non certamente le varie istituzioni. Senza una tradizione orale o una narrazione di storie che trasmettano la sapienza collettiva della comunità, non nasce un’identità, un senso di appartenenza.

Se la natura sta morendo è perché sta morendo la cultura. Se vogliamo perciò salvare la natura, dobbiamo far resuscitare una cultura che abbia sostanza e splendore, che possieda, cioè, i veri sentimenti e i racconti di cui abbiamo bisogno.

Si parla spesso di ritorno alla terra, ma in realtà nessuno di noi può tornare alla terra, semplicemente perché non l’abbiamo mai lasciata. «Abbiamo soltanto – come dice Derek Rasmussen – messo degli strati di cemento fra la terra e noi. Strati di cemento e di concetti e noi ci aggrappiamo ai concetti più che al cemento. Abbiamo ancora bisogno della terra, moriamo sulla terra, anche se la rinneghiamo o non le prestiamo attenzione».

Un popolo è fatto di persone che credono di appartenere a un luogo, oggi invece siamo persone che credono di possedere i luoghi. Le persone che si legano a un luogo se ne prendono cura, mentre quelli che non hanno radici, non lo fanno. Lo spiega bene Wackernagel quando afferma che «la globalizzazione sta creando un mondo di luoghi senza potere, alla mercé di poteri senza luogo».

Lasciatemi dire un’ultima cosa prima che la pioggia diventi una merce che loro potranno controllare e distribuire a pagamento. Loro sono quelli che non riescono a capire che la pioggia è una festa e non apprezzano la sua gratuità, pensando che ciò che non ha prezzo, non ha valore, che ciò che non può essere venduto non ha consistenza, per cui l’unico modo per rendere reale una cosa è metterla sul mercato.

«Verrà il giorno in cui vi venderanno anche la vostra pioggia. Per il momento è ancora gratuita e lascio che mi bagni. Celebro la sua gratuità e la sua illogicità» (Thomas Merton).

Qual’è l’antidoto per superare questa paura? La paura di scoprirci soli, di non aver nessuno al proprio fianco su cui contare?

Recuperare i valori non monetizzabili e cioè la natura, la parentela, gli amici. La parentela con i nostri fratelli e sorelle umani, come la parentela con la natura, gli animali, le piante, il vento, le creature, il mare, la terra. In altre parole la dimensione comunitaria e la gratuità.