Profezia e politica

di Di Sante Carmine

Parola poetica

Al lettore di Diario di un viandante, Giuseppe Stoppiglia fa dono di una parola poetica, metaforica e utopica.

La parola di questo libro è una parola innanzitutto poetica: una parola in cui traspare e splende la bellezza della forma. Una forma espressiva e letterariamente accattivante, che ti sorprende e, sorprendendoti, ti cattura, ti prende e ti apre il cuore e l’intelligenza.

Parola metaforica

Parola poetica, la parola di Stoppiglia si trascende però come tale per farsi parola metaforica, nel senso originario del termine: che porta oltre e addita un oltre. Pur essendo di bella forma, la parola dell’autore di Diario di un viandante rimanda ad un al di là della bellezza della forma e che è altra dalla bellezza della forma, ed è a questo altrove che il lettore di queste pagine è continuamente rimandato.

A volte questo «altrove» porta il nome del Mistero, di ciò che non può essere detto e colto se non nel silenzio essendo egli il Silenzioso, come si legge in una pagina del 1994 intitolata «Caino, dov’è tuo fratello?» e che inizia dicendo: «Vorrei che parlasse il silenzio e non la mia penna». E, continuando, si leggono queste parole stupende: «È nel silenzio che parlano,» (p. 55-56).

Altre volte l’«altrove» porta il nome di Dio, ma di un Dio nuovo, inedito, i cui tratti non vengono dal passato ma ci sorprendono dal futuro.

Ma l’«altrove» a cui la parola poetica di Stoppiglia rimanda non è tanto il Mistero e neppure Dio quanto soprattutto l’altro che, nella sua fragilità e nella sua concretezza, è compagno di viaggio nell’avventura dell’esistenza umana. L’«altrove» a cui rimanda e che, per così dire, ossessiona Stoppiglia è il mistero dell’altro, nella sua finitezza e nella sua mortalità che è invocazione di compassione e di tenerezza. «Hai mai osservato le foglie cadute ai piedi di un albero?», scrive a pagina 83.

Appunto perché al centro della sua parola c’è il mistero dell’altro che parla con il suo silenzio, il libro di Stoppiglia è il libro del volto e dei volti: «Volti doloranti,» (p. 139).

Tra i volti che popolano le pagine del Diario, a brillare per primi sono i volti dei bambini.

«In un’ora d’insonnia», scrive a p. 87, «la notte si riempie di presenze» e tra queste presenze la prima è quella di un bambino che sta giocando da solo sul cortile: «Dà voce agli oggetti,».

Insieme ai volti dei bambini brilla il volto della donna, nella quale l’autore vede incarnarsi la dimensione della compassione e della tenerezza capaci di salvare l’umano dal dominio e dall’artificiale che lo minaccia: «Sostengo da tempo che il prossimo sarà il secolo della donna,» (p. 161).

Ma a splendere nel libro di Stoppiglia più che il volto dei bambini o il volto delle donne sono soprattutto i volti dei poveri, delle vittime, degli sconfitti, dei diseredati, degli affamati, degli abbrutiti e degli emarginati che l’autore vede personificati nel cosiddetto Terzo Mondo e soprattutto nell’America Latina.

Parola profetica

Ma la parola di Stoppiglia non è solo parola poetica e parola metaforica, è soprattutto parola profetica: parola che, dentro le parole umane annuncia ed introduce la Parola divina che le smaschera, le purifica e le fa rilucere di nuova luce.

Parola profetica in quanto innanzitutto parola critica dell’esistente: critica spietata, senza pietà:

  • dell’Occidente: il cui «grande crimine» è di non preparare un futuro vivibile perché infettato dall’utilitarismo (p. 79) e che pertanto è minacciato da un collasso etico-culturale (p. 20);
  • della politica italiana: presa da una grande sbornia di insulti – siamo nel 1991 – e che all’autore suscita l’impressione di essere come in una osteria, al termine di un grande banchetto, dove «nell’aria densa di fumo e di puzza si incrociano parolacce, offese alla madre, ai parenti, alle donne amate» (p. 19);
  • dei sindacati: chiusi nella difesa dei diritti acquisiti e incapaci di ripensarsi, producendo etica e cultura e offrendo senso alle scelte tecniche piuttosto che trovando soluzione ai problemi (p. 144);
  • del Nord Italia e soprattutto del Veneto dove l’autore vede radicalizzarsi – siamo nel 1997 – la mentalità della Lega, ispirata da una ideologia «incolta, egoistica, danaristica, razzistica, violenta», frutto di un a «ricchezza rapida e corruttrice, senza cultura e senza morale. Non sono così certamente tutti gli elettori leghisti ingannati, ma lo spirito del nordismo era chiaro fin dall’inizio per chi sapeva vedere e capire, per chi ripudia in politica l’egoismo e la violenza». E prevedendo l’eventuale e facile obiezione, continua: «Sarò pure un uomo intransigente, savonaroliano, chiuso da sempre nel lutto sociale di vaga derivazione anarchica, ma nell’assurda idea di etnia pagana vedo un concetto avvelenato, micidiale come una mina, che conduce diritto diritto al razzismo» (p. 122-123);
  • delle città moderne: dove si è perso il senso della socializzazione e dove il senso delle relazioni sociali si limita molte volte ai rapporti tra i membri di una famiglia frammentata; e dove si vive «ammassati, mescolati, sempre molto vicini, ma non si riesce a costruire una relazione, a stabilire una comunicazione pacifica, a combinare le differenze e permettere ad ognuno di avere il proprio spazio» (p. 134-135);
  • della chiesa: che sa solo puntare il dito accusatorio e al cui interno i giovani non trovano niente, se non la noia, il dogmatismo e una morale incomprensibile;
  • dell’ONU: che, nel Ruanda – siamo nel 1994 – viene definita: «Una realtà sempre uguale a se stessa, che continua a vagare con l’aria sognante e smarrita di un gigante scemo in tutti i teatri dove si recitano le tragedie del mondo contemporaneo. Risorse enormi vengono spese, uomini muoiono sotto le sue bandiere e il palazzo di vetro resta là a rimandare nel mondo dai suoi mille specchi l’immagine inossidabile della sua sublime inutilità» (p. 60).

Parola profetica non solo in quanto critica dell’esistente ma anche in quanto disvelamento o disoccultamento delle ragioni che rendono l’esistente inaccettabile e ne esigono la contestazione e il cambiamento. Queste ragioni portano, nel diario di Stoppiglia, nomi diversi:

  • dalla stupidità – termine che l’autore riprende da Bonhoeffer e con cui Bonhoeffer intende l’ottundimento della coscienza con cui lo stupido è «capace di commettere qualsiasi male e di non riconoscerlo come male» (p. 71);
  • alla indifferenza: «la più grande piaga dell’umanità», con cui ognuno «crede di bastare a se stesso» e gli altri «costituiscono un optional da ricercare al bisogno» (p. 60);
  • alla ricchezza e benessere. Nel 1994, ad esergo della sua Lettera, Stoppiglia mette un testo di Pasolini impressionante per la sua attualità: «L’Italia sta marcendo in un benessere che è Egoismo, Stupidità, Incultura, Pettegolezzo, Moralismo, Coazione, Conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo» (p. 59). Ed è soprattutto nella ricchezza che Stoppiglia individua la ragione più profonda e costante dell’alienazione dell’esistente: «Il mito della ricchezza è la deriva umana delle società opulente, come la nostra. Perché noi non siamo tutti ricchi, ma ragioniamo tutti come i ricchi (Bischsel, Il virus della ricchezza). Basta infatti il luccichio dell’oro a metalizzare i cuori e le menti» (p. 69);
  • a soprattutto l’io narcisista e desiderante che si mura in se stesso ed è privo della relazione con l’altro e del suo sorriso: l’io ridotto a macchina desiderante e risucchiato dai suoi desideri che Stoppiglia vede esplodere e personificato in Pietro Maso che nel 1991, con tre amici, massacra i genitori per prenderne l’eredità.

Parola profetica, infine, in quanto parola utopica, che annuncia che l’impossibile può e deve diventare possibile e che, ciò che non ha luogo, può e deve avere luogo. Questa parola utopica è la parola più profonda di Stoppiglia e l’anima stessa dell’Associazione Macondo, come scrive esplicitamente l’autore in un testo del 1992 a p. 25: «Ci siamo messi sulla strada di una grande utopia, con una piccola, molto piccola organizzazione, per una grande speranza, con pochi e poverissimi strumenti, Non ci basta la solidarietà, la passione e l’affetto verso i fratelli brasiliani per allungare il passo. Vogliamo essere tra coloro che hanno sposato la debolezza, convinti che così facendo ci mettiamo dalla parte di Colui che ha scelto gli stolti per confondere i sapienti».

Critica alla critica

Per la tradizione ebraica una lode non contemperata da una critica sarebbe idolatrica e perciò falsa. Per questo mi permetto, prima di concludere, si segnalare una possibile critica alla parola profetica di Stoppiglia: la critica che la sua critica all’Occidente sembra a volte acritica ed impietosa.

Tutto ciò che Stoppiglia dice dell’Occidente è vero e non può non essere condiviso, ma l’Occidente non è solo potere e dominio, sfruttamento del Terzo mondo e violenza. È anche altro: è affermazione e scoperta della dignità del diverso, è scoperta che il barbaro non è barbaro e che ritenere barbaro il barbaro è barbarie, è istituzione del valore della persona umana sulle istituzioni e sullo stato, è logos e tekne capaci di sfamare gli affamati e asciugare le lacrime ai poveri e ai diseredati. Per questo Lévinas, un autore caro anche a Stoppiglia, non solo non si unisce al coro dei critici dell’Occidente, ma individua nel suo logos una dimensione universale e nella sua tekne una possibilità messianica con cui sfamare i poveri. Il peccato dell’Occidente non è nel suo logos e nella sua tekne bensì – come ricorda anche l’autore – nel suo «cuore», posto di fronte al bivio di usare il suo logos e la sua tekne per sfamare chi ha fame oppure per autogarantirsi e soddisfarsi narcisisticamente.

Conclusione

Nell’agosto del 1993, Stoppiglia scrive: «La domanda che mi martella è sempre la stessa e sempre più pressante. Quando inizierà una nuova umanità, dove ogni uomo sia considerato fratello di fatto. Dovrà restare questa sempre e solo utopia, oppure può diventare realtà operante?».

La risposta a questa domanda tormentosa e pressante non solo per l’autore ma, mi auguro, per ognuno di noi, è un midrash stupendo, ebraico, che Stoppiglia riporta a p. 93.

L’altro diventa fratello ogni qualvolta l’io – il mio io e l’io di ogni io qui presente – compiendo l’impensabile esodo da sé all’altro, e andandogli incontro a mani piene, colme di averi e di denari, ne riconosce il volto dalla cui trascendenza splende la luce che libera l’io dalle sue catene e lo salva.