Oratorio Don Bosco in Valdagno, 1977-1981
Nella vita di una persona credo sia molto importante sperimentare un momento denso di utopia, per quello ovviamente che è possibile vivere un’utopia e quindi con tutte le mediazioni e le riduzioni che conseguono all’impatto con la realtà. Anzi proprio queste mediazioni, se non vengono rimosse, sono preziose perché consentono di vaccinarsi dal troppo amore per utopia, un eccesso di passione che rischia spesso di far dimenticare la concretezza delle persone, l’incertezza dell’operare, il limite intrinseco ad ogni progetto, per orientare inevitabilmente l’agire utopico verso le tragiche conseguenze dei sistemi ideologici proiettati a forza sulla vita dei singoli e dei popoli. Quindi sperimentare una utopia minore, ma comunque un momento in cui si condivide con altri un’esperienza carica di attese e intessuta di realizzazioni, ovviamente piccole rispetto alla grande storia, ma originali. Avere alle spalle una simile esperienza è oggi un privilegio particolare perché consente di dare una risposta personale alle due difficoltà che investono nei nostri giorni la costruzione del senso1: da un lato l’abbassarsi dell’orizzonte delle attese, che deriva dalla crisi dei grandi progetti di società ideale e dal conseguente collasso di ogni speranza al solo futuro individuale, e dall’altro il restringersi dello spazio di esperienza, l’inutilità a cui sembra essere destinata ogni memoria di ciò che è stato, per la velocità dei cambiamenti e per l’impossibilità di consolidare una tradizione efficace dei vissuti2. Il frammento di utopia che si è gustato costituisce allora un deposito di memoria su cui appoggiarsi e da cui può prendere slancio la speranza per il futuro. Se il presente, non più sorretto dagli insegnamenti della tradizione, né da una polarizzazione verso il futuro, diviene oggi punto evanescente, spazio inospitale3, è allora veramente significativo poter contare su questo bagaglio di vita. È l’esperienza che permette l’alleanza tra un passato dotato di senso e un futuro aperto al progetto, al di là delle molte opacità del quotidiano. Tanto più incisivo è sperimentare una simile realtà se si colloca in quella fase della vita in cui si formano gli orientamenti essenziali di una persona.
Un’esperienza si situa nel tempo ed è costruita su spazi condivisi. Ecco allora un piccolo catalogo dei luoghi del mio personalissimo angolo di utopia.
Spazi in movimento
2 R. Bodei, Libro della memoria e della speranza, il Mulino, Bologna 1995, pp. 11-26.
3 Ibid., p. 15.
1 G. Mari, Postmoderno, democrazia, storia, ETS, Pisa 1998, pp. 109-122.
2 R. Bodei, Libro della memoria e della speranza, il Mulino, Bologna 1995, pp. 11-26.
3 Ibid., p. 15.
La prima cerchia: gli spazi interni dell’oratorio.
La sala ovale: al centro il tavolo che dava il nome alla stanza, attorno a cui si riuniva il gruppo nonviolento e si discuteva di Gandhi e di satyagraha, di Capitini e del potere di tutti, di Dolci e di educazione, di Don Milani e di obiezione di coscienza, e ancora di centrali nucleari, di testate atomiche, di difesa popolare nonviolenta, di ecologia…
Il salone: il luogo degli incontri dei gruppi il sabato pomeriggio, dello scambio con i coetanei, del confronto con i più grandi, gli animatori; ma ancor più la sede delle riunioni di tutto il Movimento durante le celebrazioni a Natale e a Pasqua ed anche lo scenario per le feste dell’ultimo dell’anno.
La biblioteca: stretta e lunga, sugli scaffali la prima catalogazione del sapere, libri e riviste che lasciavano intravedere mondi nuovi: romanzi, poesia, sociologia, psicologia, teatro, America Latina, Africa, Stati Uniti… Lì convenivano solo per noi (attraverso la parola scritta, spesso letta insieme) scrittori, profeti, monaci, attori, italiani e stranieri, antichi e contemporanei… Rimangono impigliati nella memoria lunghi pomeriggi estivi, ad esplorare parole e a giocare con i testi.
La cappella: i lavori di un’estate l’avevano trasformata da uno stanzone freddo, con il muro dietro l’altare piastrellato come il fondo di una piscina e il marmo per terra, in un ambiente caldo, dai toni marrone e crema, ricoperto dove possibile da fogli di sughero, con la moquette intorno all’altare e al centro che formava uno spazio vuoto da sedie e disponibile per inginocchiarsi, sedersi su sgabellini, per pregare con più libertà anche attraverso il corpo. Le preghiere comunitarie del martedì e del giovedì ritmavano la settimana e lo spazio per la meditazione personale era sempre aperto.
Adiacente alla cappella, non materialmente ma da un punto di vista spirituale, c’era la chiesa parrocchiale, in cui si condivideva con tutta la comunità uno stile di preghiera, attraverso l’animazione della messa delle undici e mezza e di molte celebrazioni dei tempi liturgici forti, durante le quali venivano reinterpretati i segni per renderne più evidente ed attuale la densità simbolica. Alle volte venivano rovesciati gli spazi abituali di fruizione della chiesa, spostando i banchi, ricostruendo un centro diverso della celebrazione.
Lo studio di Don Pino: pieno di libri e riscaldato d’inverno da una stufetta elettrica, era il luogo dei colloqui più intensi, sulla fede, sull’impegno, sul futuro, ma anche di dialoghi meno esigenti, magari nei momenti di riposo dopo qualche lavoro in biblioteca o in segreteria. Sul muro stava appeso un manifesto brasiliano, con una frase in portoghese, che trasportava fra noi un pezzetto delle sofferenze e delle speranze di quel popolo.
La segreteria: il centro logistico e operativo del Movimento: la macchina da scrivere, i cartelloni, i pennarelli, ma soprattutto il ciclostile, sui cui misteri (come fare perché non si inceppasse o perché non lasciasse macchie informi sulle stampe) e sulla interpretazione dei suoi segni (il rumore giusto e quello sbagliato, i cigolii, le trasparenze della matrice…) si era formato un piccolo circolo di iniziati. In un armadio aveva trovato posto il primo archivio del gruppo di Amnesty International.
La seconda cerchia: Castelvecchio, Marana, Quargnenta,
Erano le case per gli incontri del fine settimana. Il tempo per le discussioni e per l’amicizia poteva dilatarsi in questi spazi privilegiati.
La terza cerchia: Agordo, S. Antonio di Mavignola, Cant del Gal,
Queste ed altre, le case dei campi estivi dove si viveva per una settimana insieme, a costituire una cesura forte tra il prima e il dopo, e il ritorno alla quotidianità era sempre difficile. I molti relatori e testimoni ascoltati ai campi allargavano lo sguardo su orizzonti inattesi.
La quarta cerchia: Taizé, Spello, Bose.
I più significativi punti di riferimento per la vita spirituale, frequentati da soli o in piccoli gruppi, consentivano di trasportare parole e forme nuove nei momenti di preghiera comunitaria.
Ovviamente questi spazi non erano esclusivi del Movimento: lo stesso oratorio vedeva la presenza di altre associazioni con la loro identità ed autonomia e una volta all’anno era lo scenario di una festa di tutti. Il piccolo catalogo presentato poi non è certo completo: gli spazi descritti non esauriscono i luoghi di questo frammento di utopia. Ci sono gli spazi laici della città, affrontati spesso insieme: il Consiglio comunale, con la scoperta della politica, le sale degli incontri pubblici e delle mostre… E ancora i luoghi dell’impegno sociale, con l’invenzione di nuove modalità di aggregazione. Altri spazi a Vicenza mettevano in contatto con movimenti diversi all’interno della realtà diocesana. E, sullo sfondo, i monti, i prati, i boschi delle lunghe passeggiate,Spazi in movimento, attraverso i quali si andava formando di giorno in giorno una piccola utopia. In questi spazi ancora mi aggiro e trovo respiro, quando più forte sento la difficoltà di condividere con altri un passato e di sognare insieme un futuro.
1 G. Mari, Postmoderno, democrazia, storia, ETS, Pisa 1998, pp. 109-122.
2 R. Bodei, Libro della memoria e della speranza, il Mulino, Bologna 1995, pp. 11-26.
3 Ibid., p. 15.