Radunare i frammenti
La preziosità del piccolo
1.
Lo hanno chiamato il cantiere dell’utopia. Il terremoto del settembre 1997 aveva crudelmente squassato la basilica di San Francesco in Assisi e gli affreschi di Giotto e di Cimabue erano crollati in più di centomila frammenti. Sarebbe stato possibile restituire all’arte e alla fede quegli inimitabili tesori? Utopia diceva il buon senso, sempre pessimista. Ma l’utopia sta diventando realtà.
I crolli continuavano (e facevano quattro morti) e già decine di volontari si spezzavano le unghie e intossicavano il respiro setacciando i detriti alla ricerca di ogni tessera dell’immenso puzzle polveroso in cui erano state ridotte le meravigliose opere; ed altri recuperavano un mattone dopo l’altro, ed altri ancora cominciavano a raggruppare i frammenti per sfumature di colore, continuità di pennellata.
Oggi sugli immensi banchi del laboratorio dell’Istituto centrale del Restauro, accanto alla basilica e al Sacro Convento, in cui i muratori ripristinano pareti e consolidano archi, i santi di Giotto cominciano a riapparire, come venendo dal nulla, con occhi che sembrano dilatati dal terrore e vesti lacere e mani piagate e aureole sbrecciate: feriti, indelebilmente, e tuttavia riconoscibili; e presto (entro il 2001, forse) pronti ad essere ricollocati là dov’erano per secoli, ad aprire nelle volte stellate le porte del Cielo alle preghiere dei pellegrini.
Ho visitato il laboratorio (un regalo fattomi da padre Egidio Manzani e dalla dottoressa Paola Passalacqua, dai grandi occhi che sembrano quelli di un’icona romanica) quasi travolto dalle emozioni: per la commozione che nasce dal vedere da vicino la gravità delle ferite delle meraviglie giottesche, la straordinaria dedizione dei restauratori e i prodigi delle tecniche di cui si servono; ma più ancora per quel riemergere di un disegno unitario, di unitaria bellezza da tanti frammenti disseminati dalla tragedia. E subito mi sono detto (per uno di quei guizzi un po’ clowneschi in cui il cervello si produce di quando in quando) che la gioia profonda che sentivo in me era, in qualche modo, simile a quella provata per la Marcia della Pace: lieta e sudorosa armata brancaleone, di cento colori, mosaico musicale (dalle nenie saharawi ai flauti andini), costellazione di bandiere e cartelli e maglietti-manifesti; ma soprattutto di frammenti ideali, di speranze variegate diventate un solo disegno, una sola volontà.
Penso che nella ricomposizione dei frammenti, qualunque essi siano, si possa leggere una specie di simbolico ritorno all’opera della creazione, l’ordine che subentra al caos primigenio e – insieme – la rivalutazione di ogni particella come elemento necessario del tutto. Ho sempre creduto nella necessità di raccogliere ogni frammento di vita per ricomporlo con gli altri alla ricerca del disegno unitario esigito dalla storia. Sconfitte da quella capitalista tutte le altre ideologie, e dopo l’avvento del consumismo nei paesi cosiddetti del benessere, con la frantumazione di quasi tutti i rapporti comunitari, che altro siamo, se non frammenti minuscoli, apparentemente sterili e insensati? Sembrerebbe una condanna definitiva e invece là dove i frammenti cercano di unirsi (o li smuove la necessità dell’essere, del significare), l’esistenza del frammento si fa preziosa: le briciole diventano pane, le solitudini amore, gli individui famiglia, le parole messaggio.
2.
Preziosità del piccolo. Forza che viene dall’unità dei piccoli. Leggo con gioia, un po’ dovunque sui fogli della controinformazione, che riprende luce la storia del gigante Gulliver legato e domato dai lillipuziani, tanto più piccoli di lui. Felice ritorno di una geniale invenzione, e preziosa per i nostri tempi in cui basta la cronaca di ogni giorno a farci sentire minimi, impotenti, schiacciati da forze gigantesche e insensate nella loro logica nefasta, nella loro ideologia totalitaria, nella loro blasfema teologia. Lillipuziani davanti al Mostro.
Che fare? Gulliver, se ricordo bene, fu immobilizzato, reso inoffensivo mentre dormiva, esausto, dopo un naufragio: ed è ben difficile giudicare se il capitalismo globale stia vivendo un suo disastro. Tuttavia è certo che qua e là le rotte percorse dai suoi superbi vascelli si fanno tempestose, i suoi meccanismi scricchiolano, le sue prediche diventano un po’ ansimanti e sempre meno persuasive; e i suoi estremismi rivelano pulsioni, a lungo andare, suicide. Ma il mostro continua a uccidere, a divorare, a cancellare civiltà e diritti, libertà e dignità. Dunque non è possibile rimanere inerti, attendendo che esso crolli, corroso dalle sue stesse contraddizioni e dalle violenze di cui è seminatore: è necessario preparare i fili, le reti, i coordinamenti per muoverci intorno al suo grande corpo e togliergli un po’ della sua forza. Penso con sorridente simpatia ai lillipuziani che nella notte preparano corde, piantano picchetti, salgono impauriti ma decisi su quel gran corpaccio, minaccioso anche nel sonno, armano i loro minuscoli archi; preparano difese; ai messaggeri che corrono a cavallo nelle tenebre per reclutare uomini e portare ordini all’esercito, rassicurare i cittadini inermi; e penso alle sentinelle che scrutano il cielo in attesa dell’aurora o del mezzogiorno che sveglieranno Gulliver, quando dovranno mostrare tutto il loro coraggio,
Forse il secolo XX, cominciato con le gigantesche masse degli oppressi raccolte intorno alle bandiere delle grandi rivoluzioni, è destinato a chiudersi mentre tanti piccoli individui tentano di ridarsi, in modo nuovo, collegamenti ideali, lottando, secondo le diverse opportunità, nell’uno e nell’altro mondo in cui è diviso il nostro pianeta, perché giustizia e libertà non rimangano parole vuote o, peggio, parole corrotte nelle bocche dei sacerdoti del Mercato. Forse le bandiere sono tutte cadute, e spente le grida della rivolta. È un esito imprevisto, ma non tragico se le speranze comuni, le buone speranze, radunano i frammenti, li dispongono in modo nuovo, preparano comunità capaci di costruire, in una storia rinnovata, le grandi cattedrali della dignità dell’uomo.
3.
Una delle caratteristiche più evidenti del pontificato di Giovanni Paolo II è la prolificità di santificazioni. Nessun papa ha mai portato sugli altari tante persone e, fra esse, tanti sacerdoti. Ma i martiri dell’America Latina rimangono per lui senza aureola: monsignor Romero sembra sepolto da quasi vent’anni nel gelo degli archivi della apposita congregazione vaticana non meno che nella sua tomba di El Salvador, ma, nei Sacri Palazzi, senza tributo di affetto e di preghiere.
Figuriamoci se mai potrebbe essere canonizzato un giovane sacerdote suicida, al quale, in molti, guardiamo come a un testimone della fede. Sono passati 25 anni dal giorno in cui il frate domenicano Tito de Alencar Lima fu trovato impiccato a un albero nel sud della Francia. Aveva 28 anni e a 23 era stato arrestato dal delegato Pranhas Fleury, uno dei peggiori elementi dalla terribile polizia brasiliana degli anni ’70. «Visiterai la succursale dell’inferno» – gli garantì uno dei poliziotti. Tito rimase in carcere tre anni. Pretendevano da lui false chiamate di correo a carico dei suoi confratelli e una piena confessione sull’accusa di avere organizzato – e con chi – un congresso clandestino dell’Unione degli studenti. Nel 1972 lo torturarono per giorni e giorni, nei modi più spaventosi. Il capitano Beroni de Arruda Albernaz, che dirigeva i suoi carnefici, gli disse: «Se continuerai a tacere, non potrai più dimenticare il prezzo del tuo silenzio». Temendo di cedere, Frei Tito si tagliò le vene con una lametta da rasoio. Scrisse su una pagina della sua Bibbia che era «meglio morire che perdere la vita». Fu salvato.
Espulso dal Brasile qualche mese più tardi, in cambio della libertà data dai guerriglieri all’ambasciatore svizzero che era stato da loro sequestrato, Frei Tito venne in Europa. Ebbi un colloquio telefonico con lui e mi ingannò la sua apparente serenità la sua apparente serenità: mi sembrava che sorridesse dicendo: «Preferisco andare in Francia, dai miei confratelli domenicani». Ma in Francia il suo torturatore lo riprese. Tito vedeva Pranhas Fleury nei boulevards e nei parchi, nei bar e nelle chiese. Sotto le piogge di una gelida primavera, gli intimava di non ripararsi, di restare fermo, diritto e silenzioso. Gli ordinava di restare fermo, immobile e silenzioso sotto il sole rovente dell’estate. Gli infangava i sogni e gli rendeva il respiro aspro come un cilicio. Tito pianse come Cristo nel giardino degli ulivi ma nessun angelo veniva a consolarlo. Decise un’altra volta di morire per non perdere la vita, per essere di nuovo libero. Era il 10 agosto 1974. Nello stesso giorno, a diecimila chilometri di distanza, il capitano Albernaz veniva portato in manicomio.
Quando la dittatura militare brasiliana cominciò a entrare in fibrillazione, nel 1983, e fu costretta ad allentare i suoi artigli, fu possibile riportare la salma di Frei Tito nel suo paese. Una immensa folla la accolse a São Paulo, ove il cardinale Arns celebrò il funerale nella sua basilica. Nessuno osò pensare che Frei Tito avesse mancato di coraggio. La crudeltà della tortura di stato aveva spinto altri uomini coraggiosi a morire per non tradire.
C’è gente che adesso prega Frei Tito come un santo. Come un santo guardò a lui, in Italia, la Rete Radié Resch che si addossò le spese per la traslazione della sua salma.