Utopia

di Arveda Gianfranco

«Una carta geografica che non registri

il paese di Utopia non merita uno sguardo»

O.Wilde

All’origine del termine utopia sta il titolo di un’opera che è diventata il modello di un genere letterario e un modo di pensare al sociale che oggi sembra caduto in discredito presso la nostra cultura.

Si tratta dello scritto De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia di Tommaso Moro, edito nel 1516.

Tommaso Moro racconta attraverso il personaggio di Raffaele, di ritorno da un viaggio nel nuovo mondo, di un’isola, Utopia (il termine ha nel testo il duplice significato di non luogo ou-topos e luogo felice eu-topos), dove è stata abolita la proprietà privata, dove il lavoro, pur rappresentando l’attività più significativa per gli isolani, lascia spazio ad altre occupazioni, culturali o ricreative; nell’isola i beni vengono saggiamente amministrati a favore della comunità. Si pratica inoltre un elevato grado di tolleranza religiosa. L’obiettivo cui è finalizzato tale sistema sociale è la felicità degli utopiani, che ricevono una educazione aperta all’accettazione degli altri, di altre opinioni, nel disprezzo delle ricchezze e in particolare dell’oro.

Il racconto di Raffaele che ci fornisce una descrizione dettagliata della vita nell’isola, appare a prima vista un gioco della fantasia, un piacevole passatempo di corte, una costruzione immaginaria fatta per divertire.

In realtà lo slancio utopico che pervade il testo si radica in un’analisi delle condizioni delle classi più umili nell’Inghilterra di Enrico VIII: la crisi della proprietà contadina, l’incameramento delle terre comuni da parte delle grandi proprietà terriere e la loro destinazione a terra da pascolo, aveva gettato nella miseria i contadini poveri, che ormai vagabondavano per il Regno, costituendo una minaccia per l’ordine pubblico. Tutto ciò viene denunciato con forza da Tommaso Moro nella prima parte della sua opera.

Da questo testo possiamo già ricavare alcuni dei tratti salienti del concetto di utopia: essa in particolare quando ha finalità sociali, si presenta come una alternativa totale, razionale, rispetto alla realtà presente che è segnata da tali ingiustizie e disarmonie da apparire irrazionale. Le utopie sociali si presentano come un progetto percorso da una logica interna, stringente, rigorosa, un progetto che investe la società nel suo complesso. Visitare l’isola di Utopia vuol dire quindi assumere un modo di pensare, per cui la realtà viene commisurata ad un modello ottimale, insomma quell’utopismo che è tanta parte del nostro passato politico.

«Da questo non-luogo viene gettato uno sguardo esteriore sulla nostra realtà, che improvvisamente appare insolita, poiché niente è più dato per scontato» (P. Ricoeur, Tradizione o alternativa, Morcelliana). Il vedere utopico equivale ad un processo di estraneamento, di dislocazione periferica che permette di considerare il quotidiano, il nostro mondo sociale, le nostre categorie, fluttuanti all’interno del nostro orizzonte fatto di scelte, di possibilità esperibili, e di possibilità non-esperibili; ciò che viene valutato come impossibile consente di articolare meglio ciò che è possibile: «È perfettamente esatto e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile» (M. Weber). Ma c’è di più: nell’isola di Utopia, gli uomini appaiono in grado di modificare il proprio destino su questa terra, di indirizzarlo verso un approdo caratterizzato da giustizia sociale, fraternità tra i suoi membri, benessere diffuso. Con Tommaso Moro inizia la storia dell’utopia letteraria moderna, che in modi diversi a seconda delle epoche declinerà la speranza escatologica del cristianesimo medioevale e la carica contestativa nei confronti della società gerarchica dei movimenti ereticali premoderni; quell’aspirazione ad uno stato originario felice (mito), quell’attesa della Gerusalemme celeste, si convertono nello slancio verso un mondo storico alternativo. Inizia il processo di secolarizzazione dell’escatologia cristiana.

Nella storia del genere utopico un passaggio significativo è rappresentato dalla produzione del XVIII secolo. Le utopie fino al 700 vengono pensate come luoghi geografici, isole felici e fantastiche. In questo secolo l’utopia assume una caratterizzazione diversa. Nel 700 si ha una straordinaria fioritura di trattati, romanzi ecc. di argomento utopico. È il periodo in cui si afferma il mito del buon selvaggio, che consente non solo una critica della società contemporanea ma di tutto il corso della civiltà occidentale. A ciò va ad aggiungersi una filosofia come quella di Rousseau, che teorizza che la natura fa gli uomini buoni e la società li corrompe. In questo contesto, in particolare francese, prende piede una nuova forma di utopia, definita ucronica, cioè una utopia dislocata nel tempo, anziché nello spazio: dal non-luogo si passa al non-tempo. È in questo secolo che nasce il rapporto tra storia e utopia. Ciò che incomincia a farsi strada come orizzonte culturale è la concezione del cammino umano come di un procedere per tappe successive e cumulative segnate da una crescita inarrestabile di sapere, libertà e felicità.

Nasce l’idea della storia come progresso. L.S. Mercier scrive la più conosciuta delle opere di questo genere, L’anno 2440. Il protagonista si addormenta nel XVIII secolo e si sveglia nel XXV. Parigi è diventata una città pulita, la gente è felice e virtuosa. Si gode di grande libertà, le leggi sono giuste, l’economia prospera, non ci sono più guerre. L’evento che si incarica di dimostrare che si può rovesciare una società che corrompe gli uomini rendendoli malvagi è la rivoluzione francese che apre al secolo dell’utopia comunista, al secolo storico per eccellenza. Utopia e storia ora marciano insieme per preparare la società senza classi.

Questa alleanza entrerà definitivamente in crisi con la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’impero sovietico. Nella letteratura utopica di questo secolo questo esito era stato già intravisto: la carica utopica, il principio speranza, si era già affievolito; allo slancio progettuale si sostituisce nei romanzi utopici, il ritrarsi inorridito di fronte ad un futuro che là dove dovesse realizzare la società ottimale porterebbe con sé l’annullamento dell’uomo, della sua libertà, libertà di un essere fragile, tormentato, anche infelice, ma custode di una straordinaria ricchezza. Gli autori che si dedicano a questo genere di distopia, come è stata definita, sono piuttosto noti, come le loro opere, Huxley, Orwell, Bradbury ecc.

L’esperienza totalitaria in Russia ebbe naturalmente una grande influenza su questo nuovo orientamento: l’utopia comunista realizzata sembrò mettere una pietra tombale sulle illusioni maturate nei due secoli precedenti quanto a capacità degli uomini di progettare una polis che non conoscesse forme di ingiustizia. Quell’esperienza soprattutto dopo la seconda guerra mondiale dimostrò che la feroce determinazione nel perseguire l’egualitarismo sociale come unica forma di giustizia, comportava lo sradicamento di ogni espressione di libertà. Il pluralismo sembra essere incompatibile con il progetto di una società se non perfetta più giusta, che consenta la eguale dignità dei cittadini.

È ancora nel corso del nostro secolo che si sviluppa in modo approfondito il dibattito intorno alla funzione storica e sociale dell’utopia; se da un lato v’è chi considera l’utopia come un principio fondamentale per promuovere ogni azione riformatrice; è il caso di E. Cassirer che afferma «la grande missione dell’utopia è di dar adito al possibile, in opposizione alla passiva acquiescenza all’attuale stato di cose. È il pensiero simbolico che trionfa della naturale inerzia dell’uomo e lo dota di una nuova facoltà, la facoltà di riformare continuamente il suo universo»; dall’altro v’è chi come Ruyer o come Popper considera il pensare utopico come una forma di pensiero totalitario.

È Popper in particolare a muovere la più implacabile e argomentata critica all’utopia. Egli parte dalla constatazione che il pensiero utopico stabilisce fini assoluti all’azione sociale; ma questi fini assoluti non possono essere fondati razionalmente, perciò nel processo di edificazione della società umana si è costretti a ricorrere alla violenza per imporre questi fini, combattendo tutto ciò che allontana da questa meta, tutto ciò che trova espressione in modi di pensare e atteggiamenti divergenti. Il pensiero utopico ha un carattere statico, rigido, difficilmente si adatta ai naturali cambiamenti sociali, totalizzante, pretende di ricondurre ad unità ciò che vive nel pluralismo e si alimenta di pluralismo, e quindi i suoi esiti sono inesorabilmente totalitarii. «Che il metodo utopistico, scrive Popper (da Utopia e violenza), che elegge uno stato ideale della società come scopo cui tutte le azioni politiche devono tendere, possa generare violenza, è dimostrabile nel modo seguente. Dato che non è possibile determinare i fini delle azioni politiche scientificamente, …, le differenze d’opinione circa le caratteristiche dello stato ideale non possono venir appianate col metodo dell’argomentazione. Esse avranno almeno in parte il carattere dei contrasti di natura religiosa, e non può esservi tolleranza fra religioni utopistiche diverse… Ma egli (l’utopista) deve fare di più. Dev’essere molto severo nell’eliminare e soffocare tutte le posizioni eretiche rivali… L’impiego di metodi violenti nella soppressione delle tendenze rivali diventa ancor più urgente se consideriamo che il periodo di edificazione dell’utopia può essere un’epoca di rivolgimenti sociali. In un periodo siffatto anche le idee possono mutare. Così quel che appariva a molti desiderabile all’epoca in cui fu stabilito il progetto utopico, può risultare un seguito meno desiderabile. In tal caso la concezione utopica rischia di infrangersi». Da ultimo, per concludere questa breve nota su Popper, il modello sociale cui fa riferimento il pensiero utopico è la società chiusa, rintracciabile in Platone, Tommaso Moro, e in particolare nel pensiero marxista. La società chiusa ruota intorno ad un gruppo unitario di convinzioni, rappresenta una condizione di felicità e di benessere e giustizia finalmente realizzata; si tratta di un tipo di società che per affermarsi deve sopportare un grado elevato di violenza e di limitazione della libertà. Desiderabili per Popper sono le società aperte, dove non esiste una verità unica, ma un libero esercizio di critica, e tutto viene acquisito mediante esperimenti, libere discussioni, parziali interventi nel sociale, il cui fallimento , proprio perché limitati, non ha conseguenze insopportabili. Desiderabili le società aperte quanto più si ha presente che è impossibile la progettazione di una società buona, tenendo conto che gli elementi e le variabili che costituiscono una realtà così vertiginosamente complessa sono in numero quasi infinito (M. Moneti).

È difficile negare che oggi le utopie hanno scarso rilievo, non sono più di moda (tranne che non si voglia rifondarle quale progetto della società di giustizia volto verso il futuro ma innervato nella storia e sempre parzialmente espresso, del quale l’utopia letteraria è solo un fatto accessorio, vedi A. Colombo L’utopia edizioni Dedalo; ma questa via merita di essere esplorata in modo più approfondito). Il venir meno dell’alleanza fra storia e utopia, ha reso la prima inintelligibile per gli uomini, l’ha privata di senso, di un telos e ha svuotato di ogni slancio progettuale la seconda. Ai grandi progetti oggi si preferisce il bricolage sociale come suggeriva Popper. L’atmosfera è fatta di modestia e aspettative decrescenti. L’agire politico non provoca più particolari emozioni: l’atteggiamento che prevale assomiglia sempre più ad una sorta di pragmatismo deteriore¸ la politica assume i toni di un’attività dimessa, burocratica, impegnata semmai nel devitalizzare gli slanci, nello spegnere le speranze, che possono infrangere l’ingessatura pseudo-scientifica ed economica nella quale gli individui si trovano costretti. Nonostante questo vorrei concludere riprendendo una riflessione-domanda di Bobbio intorno alla catastrofe del comunismo, dell’utopia capovolta: (che vorrei leggere come una domanda circa la nostra capacità oggi che la miserevole caratterizzazione in senso economico e tecnico-scientifico di ogni momento della nostra esistenza ha bruciato ogni slancio, e la nostra razionalità appare sempre più povera e priva di compiti, di ricollocarsi responsabilmente, con passione di fronte ai bisogni e le miserie di questo mondo) egli si chiedeva con evidente preoccupazione se la democrazia rimasta sola perché i regimi comunisti sono stati scossi, lacerati attraverso le crisi economiche, sarà in grado di dare una risposta ai giganteschi problemi degli oppressi della terra da cui era nata la speranza di emancipazione dell’utopia comunista. Saprà la nostra società deidologizzata accogliere in sé quella sete di giustizia che continua a guidare l’azione degli uomini e che i regimi comunisti avevano cercato di soddisfare globalmente e in conflitto con gli altri bisogni fondamentali?