L’utopia biblica di libertà e giustizia
Su La Repubblica del 13 aprile 1999, Gad Lerner in un articolo dal titolo Se il Dio dei popoli combatte nei balcani scriveva: «Il nostro ecumenismo laico [cultura laica dell’Occidente] erede di una tradizione giudaico-cristiana, deprivata dei suoi riferimenti alla trascendenza, da noi rimodellati in forma di ideali civili, alla fine del millennio viene chiamato a fare i conti col fenomeno nuovo delle etno-religioni». Tra le varie interessanti questioni che possono suscitare queste incisive affermazioni iniziali scelgo quella relativa all’identificazione tout court della modernità’ dell’Occidente con un’eredità giudaico-cristiana deprivata dei suoi riferimenti alla trascendenza. Tra le domande che sorgono spontanee, una mi pare rilevante per il dialogo interculturale in generale: siamo proprio sicuri che la modernità, fiera dei suoi ideali civili (che riassumeremo in un’unica parola: libertà), sia il semplice sviluppo di una tradizione giudaico-cristiana rimodellata? Non potrebbe darsi il caso che tale tradizione sia stata gravemente ferita ed estenuata con la privazione del riferimento al Trascendente? Più provocatoriamente, non rischierà anche la laicità, di cui va fiero l’Occidente, di essere una pseudoreligione?
La minaccia di una certa trascendenza
La cultura moderna dell’Occidente ha visto la trascendenza (o meglio, il Trascendente) come una verità assoluta ed oggettiva, (una cosa) da possedere o da accettare supinamente per rivelazione: un pericolo quindi per il progresso storico della ragione e della sua libertà, nella conquista senza fine di verità relative e nel dialogo rispettoso con la verità degli altri. Chi non vede la minaccia sempre incombente di brandire come una clava la Trascendenza così intesa e così imposta contro ogni dissenziente o semplicemente diverso? In questo senso la laicità, come piena indipendenza della ragione umana da ogni imposizione esterna alla sua libertà, continua a essere un valore fondante della cultura occidentale. Tale cultura ha creato utopie di progresso e di sviluppo, così riassunte in lucida sintesi da Carmine Di Sante: «La modernità è stato il grandioso tentativo di leggere la realtà – cosmo e storia, mondo e uomo, natura e cultura – come progresso, sia nella linea più ingenua della prima modernità, che pensava il dominio dell’uomo sulla natura assoluto e incontrastato [v. l’ideologia attualmente imperante della razionalità strumentale di scienza e tecnologia], sia in quella più matura – quella della dialettica – che, consapevole dei guasti del progresso prodotti dall’incipiente industrializzazione, assume il negativo come strumento e mezzo di evoluzione» (Di Sante I, 4).
Potremmo tradurre queste utopie moderne negli ideali sbandierati dalla Rivoluzione francese: libertà, eguaglianza (giustizia), fratellanza. Senonché la fratellanza umana è risultata cosa ardua, per non dire impossibile, di fronte a una libertà incapace di volere e praticare la giustizia (cfr. liberalismo delle democrazie liberali), e di fronte a una giustizia incapace di assicurare la libertà (democrazie popolari del cosiddetto socialismo reale).
Il fallimento dell’io chiuso su di sé
Alla radice di questo fallimento, drammatico per le rovine e i lutti che ha provocato soprattutto nel nostro secolo, non è difficile scoprire il concetto ambiguo di libertà, intesa in senso individualistico e razionalistico (la ragione astratta confusa con la spiritualità). Così poteva scrivere uno storico classico del liberalismo europeo: «La libertà è coscienza di sé, del proprio infinito valore spirituale», e nella sintesi conclusiva: «La libertà coincide col valore stesso dell’attività spirituale, che si svolge da sé e da sé trae la sua norma… la libertà costituisce una condizione essenziale di sviluppo e di progresso»; «è un Io sempre maggiore che si libera in questo processo: un Io che si fa coscienza, pensiero, parola, azione, famiglia, proprietà, associazione, classe, società, insomma si coestende a tutto il dominio umano. Le libertà civili e sociali non sono, così, che il prolungamento di quelle individuali…» (De Ruggiero, 15, 419-20 passim).
È proprio pensando a questo Io che si coestende a tutto il dominio umano (diventando anche, perché no?, nazione, popolo, razza) che ci accorgiamo come una simile coscienza astrattamente (razionalisticamente) universale di individuo possa rivelarsi terribilmente angusta e generare continue divisioni e conflitti. L’individuo incentrato su se stesso e sulle varie rivendicazioni dell’Io è incapace di dar conto di un altro tipo di esperienza umana, quella di una libertà dove l’identità dell’individuo non è data semplicemente dal se stesso e da tutte le sue conquiste, ma dal se stesso aperto originalmente ad altri. L’individuo umano è anche persona = individuo-in-relazione. Non la chiusa sostanzialità dell’in sé, da sé e per sé di tanta filosofia moderna decide del valore dell’essere umano (individuo), ma quella singolare accidentalità (in realtà essenzialitàv nella vita quotidiana dell’uomo in carne ed ossa) che lo fa persona dandogli un’identità aperta: la sua relazione-ad-altro.
In quella che viene comunemente chiamata postmodernità, la cultura occidentale continua a essere caratterizzata da un individualismo liberale che, fiero della razionalità scientifica e tecnologica, restringe e fa rifluire le varie utopie su di un io narcisista, disincantato e privo di attese per le quali valga la pena sacrificarsi. Esito, questo, davvero «paradossale della modernità nata come utopia: come volontà di sconfitta del male e di instaurazione della società ideale» (Di Sante I). Di fronte a questi risultati fallimentari delle utopie moderne, è saggio porsi domande come queste: e se Trascendenza, anziché qualcosa di imposto all’uomo contro la sua libertà, volesse dire invece libero dono di un Creatore che istituisce la libertà dell’Uomo per farlo co-creatore del destino proprio e di quello del mondo, diventando così fondamento di autentico umanesimo?
Se trascendenza significasse rapporto gratuito?
E se Rivelazione non significasse una verità piovuta dall’alto, estranea alla ragione dell’uomo, ma sollecitazione da Persona (divina) a persona (umana), dis-velamento di un progetto a cui l’Uomo è chiamato a partecipare con libertà responsabile? La mia risposta a questi interrogativi è positiva, e cercherò di esemplificarla in rapporto a due temi fondamentali come libertà e giustizia. Basta una onesta lettura laica della Bibbia per accorgersi che l’«atto identificatore di Dio è stato la liberazione»: «Io sono il Signore tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù» (Es 20,1) (cfr.Maguire, 352ss). Questo entrare di Dio nella storia come liberatore si inscrive in una creazione che è, a sua volta, progetto affidato alla responsabilità dell’uomo. Al mito creato dal pensiero moderno, di un uomo che cerca se stesso in piena autonomia e indipendenza da ogni altro (compreso Dio, visto come supremo antagonista dell’uomo), il pensiero biblico contrappone il principio alleanza tra Dio e l’Uomo: «Per la Bibbia l’amore di Dio non opera come principio vitalistico’, bensì come libertà d’amore che istituisce la libertà umana… Anche Dio si rivela bisognoso’, ciò di cui egli ha bisogno è la libertà dell’uomo alla quale affidare il suo progetto d’amore, cioè la creazione. Questa non è realizzata solo da Dio e neppure solo dall’Uomo, ma dall’alleanza tra l’uno e l’altro» (Di Sante I).
Insomma, la rivelazione di Dio all’uomo non è quell’assoluto che piomba dall’alto a soffocare ogni autonomia umana, ma la proposta liberante di un Cammino da fare insieme. È come se Dio con la creazione si tirasse indietro, sospendesse il suo dominio per consegnarsi alla responsabilità e decisione dell’Uomo. Il Creatore non vuole esecutori schiavi ma liberi co-creatori. Per giungere, o meglio, tornare al vero se stesso, a una libertà che ha smarrito il senso della responsabilità, l’uomo ha bisogno della domanda-appello di Dio: «Dove sei?» (Gn 3,10). Quando «Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: Mi sono nascosto», solo allora «inizia il cammino dell’uomo» (Buber, 21-23, passim).
Il Trascendente dunque come suscitatore di libertà responsabile. Il negativo, il male nel mondo non viene superato con l’astuzia della ragione, con i sotterfugi della dialettica storica, come voleva Hegel (e come vuole ogni storicismo che ha secolarizzato l’idea di provvidenza in quella di progresso e sviluppo’ senza fine), ma con l’ascolto della Voce, con la risposta a Colui che ci chiama a realizzare nel mondo l’utopia del Bene. Per la Bibbia l’amore di Dio è amore di libertà. Gli stessi comandamenti sono un unico appassionato invito: «Amami, se vuoi». L’uomo è sempre rinviato e consegnato alla sua libertà responsabile, all’amore di libertà (cfr. Di Sante II,44-46). Per l’ebraismo, secondo Karen Hassan, la stessa fondamentale osservanza del Sabato mira solo a farne «un simbolo ad un tempo dell’incommensurabilità di Dio e della libertà dell’uomo. Dio interrompe liberamente l’opera, che liberamente aveva iniziato, col settimo giorno perché essa aveva ormai le gambe per camminare da sola’: con il Sabato Egli torna a se stesso per lasciare che il mondo sia se stesso, per fare in modo che il popolo scelto scegliesse autonomamente il suo Dio (Garribba, 10-11). Tuttavia occorre forse dire che più che interrompere la sua opera, Dio nel Sabato la perfeziona.
Libertà, alterità, liberazione
La pace è frutto della libertà dell’uomo in operoso dialogo con la libertà di Dio. Amore di libertà non è un’espressione romantica, è un impegno coraggioso per la giustizia, è amore di alterità, un amore che libera dal male praticando il bene. È su questo punto che la Bibbia presenta un’utopia etica – utopia del soggetto – che trasforma umanizzandola l’utopia coltivata dalla modernità. Dal progresso e dallo sviluppo incentrati più che altro sulle cose utopiche (da conquistare, rivendicare, imporre, distribuire…), si passa al cuore del soggetto utopico (buono, giusto o santo), non sognatore o fruitore soltanto di utopia, ma produttore di utopia nella responsabilità quotidiana. «Niente, all’apparenza, è così poco utopico come amare l’orfano, il povero, la vedova, lo straniero, o il nemico ecc., ma è da un gesto come questo che fiorisce l’utopia». Per la Bibbia il frutto autentico della libertà che viene da Dio (dalla risposta al Trascendente) è l’amore al fratello allo stesso modo di come Dio lo ama. Ciò significa entrare in quello spazio che il profetismo chiama del diritto e della giustizia, lo spazio dell’alterità in cui l’io non si sviluppa, ma viene dis-avviluppato da se stesso (Di Carmine I, passim). Per le Scritture ebraiche l’amore di alterità sarà l’amore allo schiavo e allo straniero ( Lv 19,33-34); per le Scritture cristiane, l’amore ai nemici (Mt 5,43-44).
Per una giustizia non bendata e parziale
Il simbolo più comune della giustizia nella nostra cultura è una donna con gli occhi bendati che sostiene una bilancia in perfetto equilibrio. La nostra giustizia è questa: matematicamente equilibrata, a ciascuno il suo, senza guardare in faccia a nessuno. Veramente anche nella Bibbia si dice, con termine tecnico greco (prosopolempsia = accettazione di persone) che Dio non si lascia incantare da chicchessia, ma ciò non vuol dire che Dio sia imparziale alla nostra maniera: un’imparzialità che rasenta l’indifferenza. È qui che la giustizia biblica presenta tutto il suo slancio rivoluzionario che la contrappone alla nostra giustizia miope e gretta: Dio è parziale, parteggia per i poveri, i disgraziati, gli oppressi. Basti pensare che la grande utopia di giustizia espressa nel messianismo vede il re futuro, messianico appunto, come colui che farà giustizia ai poveri (cfr. Sal 72,12-14). Maria di Nazaret aveva riassunto questa giustizia di Dio in termini inequivocabili nel suo magnificat: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Lc 1,52-53). Schematicamente, mentre la nostra giustizia (quella della cultura occidentale) è dichiaratamente imparziale, fondata sulla proprietà privata e sui diritti definiti in termini individualistici, risultando quindi statica e conservatrice, quella biblica è pregiudizialmente favorevole ai poveri e critica nei riguardi dei ricchi, fondata sulla proprietà sociale e sui diritti definiti in termini di solidarietà e di bisogno, risultando quindi evolutiva e rivoluzionaria (cfr. Maguire, 183ss). Si potrebbe concludere dicendo che la vera critica alla religione (quella non viziata da uno pseudoassoluto, quella che non butta via il bambino con l’acqua sporca), la critica libera e liberante è forse, ben più e diversamente da quella proclamata dai filosofi della cultura moderna (Marx, Nietzsche, Freud…), la critica dei profeti di Israele, quando descrivono, ad esempio, la nausea di Dio di fronte a un culto che serve a camuffare l’ingiustiza (cfr. Is 1,10-17); quella di Gesù di Nazaret , un ebreo doc , quando dice, ad esempio: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27), o quando annuncia l’utopia del regno di Dio, intendendo che Dio regna quando l’Uomo pratica la giustizia, quando vive la libertà per la giustizia (cfr. Mt 6,33).
Note bibliografiche
– K.Lìövith, Significato e fine della storia, Ed. Comunità, 21965 (in particolare, i par. 2 e 3 su Hegel e Marx, rispettivamente, e la Conclusione).
– D. C. Maguire, Il cuore etico della tradizione ebraico-cristiana. Una lettura laica della Bibbia, Cittadella Ed., Assisi 1998.
– P. Garribba (a cura di), Feste ebraiche, Ed. Com Nuovi Tempi, Roma 1999: art. di Karen Hassan, E il Sabato Dio affidò l’uomo a se stesso, 9-14.
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– C. Di Sante II, Il futuro dell’uomo nel futuro di Dio, Ed. Elle Di Ci, Torino 1994.
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– C. Di Sante I, Ripensare l’utopia, in Via Po (Settimanale culturale di Conquiste del lavoro-152) 19-20 dic.1998.
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– G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Feltrinelli Economica, Milano 41977.
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