Perché non rimangono a casa?

di Ortu Maurizio

Premessa
Tutti gli anni decine di migliaia di italiani arrivano in Brasile. Gli scopi delle loro visite sono i più svariati: conoscenza, interscambio, puro turismo o turismo sessuale (questi purtroppo, rappresentano una delle fette più consistenti, attirati dall’idea di poter sfruttare la necessità e la fame di decine di migliaia di minorenni brasiliane). Non voglio parlare qui di queste ultime categorie, anche se ci sarebbe molto da dire; voglio invece cercare di mettere per iscritto alcune impressioni e riflessioni legate a quanti vengono in Brasile con l’obiettivo della conoscenza, dell’interscambio o della solidarietà (almeno nelle loro intenzioni), e con i quali ho avuto, e ho modo di avere molti contatti sia per le mie attività con Macondo, sia per il mio attuale lavoro a Teofilo Otoni.
Può darsi che le mie osservazioni non soddisfino tutti o che qualcuno pensi che per lui non valgono: ebbene non è mio obiettivo contemplare tutti i comportamenti, ma solo quelli che più mi hanno colpito negativamente.

Flash back

Vivo in Brasile da 9 anni. Da giugno ’97 sto lavorando a Teofilo Otoni (Minas Gerais) in un progetto di appoggio a una associazione di comunità di piccoli produttori agricoli.
Teofilo Otoni è situata in una delle aree più povere de Brasile (la Valle del Mucuri) e ha una popolazione di circa 150.000 abitanti. Anche per la presenza di alcuni missionari italiani, tutti gli anni passano da queste parti decine di persone: alcune si fermano alcuni giorni, altre alcune settimane e altre alcuni mesi, per lavorare in una delle molte attività messe in piedi dai missionari.
Questi italiani hanno molte cose in comune con la maggior parte di coloro che ho conosciuto nella Casa di Accoglienza: fanno, di norma, riferimento a qualche parrocchia in Italia, partecipano ad alcune iniziative a favore del “Terzo Mondo”, molti aderiscono alle adozioni a distanza, vogliono conoscere da vicino queste realtà, ecc.
Arrivano mossi dalle migliori intenzioni, con molta buona volontà e in buona fede, ma non è sufficiente avere buone intenzioni e buona fede perché le nostre azioni riescano diversamente da quanto desideriamo e non sono sufficienti le buone intenzioni per evitare guasti: è già successo che qualche italiano, pieno di buone intenzioni, sia riuscito in meno di un mese a mandare all’aria il lavoro di un anno o più. Non basta avere buona volontà, se questa non è accompagnata da rispetto: rispetto per la situazione, per la cultura locale e, principalmente, per le persone.
Sono pochi quelli che vengono con la disponibilità a capire e a farsi capire, a entrare in un rapporto in cui si rispetti chi si ha di fronte, facendosi allo stesso tempo rispettare (e rispettandosi).
Due sono, invece gli atteggiamenti più comuni: nel primo caso si verifica l’annullamento completo di se stessi, delle proprie idee, della propria cultura e del proprio senso critico, con una posizione che la popolazione locale ha sempre ragione e tutto ciò che è locale e bello, mentre “noi” abbiamo sempre torto e tutto ciò che è italiano è merda. Nel secondo i locali sono poveri diavoli, ignoranti, incapaci di gestirsi e di fare qualsiasi cosa per migliorare la loro situazione; gente che non ha voglia di fare niente, ha bisogno di qualcuno che le insegni cosa fare e le aiuti a tirarsi fuori dalla miseria; sono degli incivili sottosviluppati; per fortuna ci siamo noi che sappiamo fare, siamo progrediti e siamo buoni e disposti a aiutarli perché, forse, un giorno possano diventare come noi: è la carità pelosa di chi si sente superiore e nutre in fondo (e spesso neanche tanto in fondo) un profondo disprezzo per la popolazione locale, a cui si vorrebbe “fare del bene”.
Nell’uno o nell’altro caso, al di là delle intenzioni, i risultati sono disastrosi. Nel primo caso la tendenza è di mitizzare le situazioni e le persone, poi, col rischio di soffrire pesanti delusioni e frustrazioni, che tramutano l’amore spassionato in odio. Nel secondo caso li trattiamo come poveretti, ignoranti e incapaci, ladroni e pigri, persone di rango inferiore, dei quali noi, nella nostra “infinita bontà” ci preoccupiamo. Si costruisce spesso un rapporto, quasi economico, dare e avere, un rapporto di dipendenza; l’italiano viene valutato per quello che regala e perpetua il rapporto di paternalismo e di assistenzialismo; porta le persone ad avere atteggiamenti amichevoli e di simpatia, perché altrimenti non conquistano il regalo: in realtà finisce per comprare una finta amicizia con magliette e caramelle. Torna in mente l’immagine dei primi “conquistadores”, che compravano la fiducia degli indios con le perline colorate e gli specchietti. In ambedue i casi i risultati sono uguali buttare per aria in poche settimane anni di lavoro. Non sempre i danni sono irreparabili, ma quando finisce l’epoca delle ferie italiane, c’è da lavorare il doppio per cercare di rimediare, utilizzando energie e risorse che potrebbero essere meglio utilizzate per continuare la camminata.
A volte viene da chiedersi perché queste persone non rimangano a casa, cercando di mettere a frutto le loro energie e la loro disponibilità per aiutare a risolvere i problemi che ci sono in Italia (che a quanto ci risulta, non sono pochi).
Sia chiaro che, con questo non voglio assolutamente dire che gli italiani non devono venire a conoscere il Brasile, anzi. Quello che si chiede è che persone cerchino di prepararsi prima del viaggio, che cerchino di svuotarsi dei loro preconcetti e delle loro analisi precostituite, cercando, al loro arrivo di conoscere e capire, farsi conoscere e farsi capire, senza avere la pretesa di avere capito tutto dopo una settimana di Brasile.
Sarebbe fantastico se più persone venissero in Brasile nello spirito di Macondo, disposti – come dice Giuseppe Stoppiglia – a svuotarsi per farsi riempire dall’altro. Questo aiuterebbe più di tante magliette e caramelle o scarpe da ginnastica regalate per calmare la nostra coscienza.