Bamako, 2023
“Niente pavimentazione. Niente canali di scolo, niente tubazioni, niente energia elettrica. Vide alcuni altoparlanti montati in mezzo ai gruppi più numerosi di catapecchie. Uno si ergeva sopra un fetido bar, una superbaracca pavimentata con ciottoli e fatta di plastica e casse. C’erano degli uomini davanti, dozzine, che stavano accovacciati all’ombra e bevevano da antiche bottiglie di vetro e giocavano coi sassolini sul suolo butterato, I sobborghi non mostravano di finire. Anzi, diventavano più affollati e sinistri, Borse di iuta, con un disegno azzurro sbiadito: mani strette amichevolmente e la scritta in inglese e francese, 100% farina di triticale, dono al popolo del Mali da parte del popolo del Canada. Un adolescente che indossava una t-shirt Euro-Disney, con lo slogan “Visita il futuro!”, Pezzi di un pickup coreano, portiere di camion di plastica e finestrini diligentemente cementati in un muro di fango rosso, I sopravvissuti alla siccità si accalcavano in gigantesche aree urbane, come quella”.
Questa la descrizione spaventosa, futuristica ma non troppo, di una nazione africana “rovinata al di là di ogni speranza, ridotta a una serie di mostruosi accampamenti” e governata nel segno della sopraffazione da una struttura militar-terroristica. La propone Bruce Sterling nel suo romanzo cyberpunk Isole nella rete, dove immagina un mondo frammentato in tante forme e tanti luoghi di potere : città-stato in mano a pirati informatici, aree devastate dove l’unica modalità di relazione è la violenza, aziende multinazionali che negoziano da pari a pari con gli Stati, organizzazioni criminali che controllano interi territori,
La trama che collega realtà tanto diverse è la “Rete”, una rete quotidiana, lontana quanto mai dai fasti oggi tributati al progresso informatico. “Isole nella rete” sta a significare allora quest’arcipelago di realtà disomogenee alla deriva nell’oceano informatico, un mosaico impazzito di cui è impossibile ricostruire un disegno unitario e minimamente stabile. E’ un futuro da incubo e quanto mai ironica risulta la scritta sulla t-shirt eurodisneyana.
Sterling scrive nel 1988. Dieci anni dopo, oggi, un articolo di Oswaldo De Rivero su Le Monde diplomatique propone una nuova categoria territoriale per definire quelle aree, che coprono intere nazioni o parte di esse, dove il potere statale ha perso ogni capacità di controllo e che tanto ricordano purtroppo gli incubi descritti dall’autore cyberpunk. Sono territori in cui le guerre civili a sfondo etnico, politico o religioso, la forza di bande criminali armate, la corruzione dilagante hanno ormai disgregato ogni forma organizzativa dello Stato ed hanno eroso lo spazio di vita della società civile, lasciando il campo al potere precariamente bilanciato dei vari “Signori della guerra”. Il nome proposto per questi territori da De Rivero è “entità caotiche ingovernabili” (Eci).
Il nome dice molto: parla del caos che si sostituisce ad ogni forma ordinata di vita, ricorda le difficoltà quasi insormontabili che si incontrano nel tentare modalità di governo di questo caos, anche da parte degli organismi internazionali. Se si sente la necessità di coniare un nuovo termine significa che le parole finora usate per identificare queste aree, ad esempio le categorie “Paesi in via di sviluppo” o “Paesi poveri”, non riescono più a descrivere la realtà, o quanto meno non tutte le realtà che vorrebbero comprendere. Il nostro modo di immaginare il mondo fatica a rinunciare allo Stato e alle sue icone: il territorio ritagliato sulle carte geografiche, la capitale, il governo, il parlamento, le elezioni, l’esercito, la scuola pubblica, la sanità, le infrastrutture.
La crisi estrema dei Paesi poveri sembra portare proprio alla dissoluzione dell’organizzazione e dell’identità stessa dello Stato. Se certamente molti di questi Stati sono tutt’altro che democratici, sono soffocati da una burocrazia immobile, governati con poca efficienza e molto clientelismo, è anche vero che è comunque preferibile che lo Stato mantenga il controllo del territorio. Perché elezioni democratiche potranno essere indette, la burocrazia potrà essere motivata e migliorata, il clientelismo ridotto, potrà esservi insomma speranza di cambiamento, ma solo se lo Stato continuerà ad esserci, come luogo comune in cui i cittadini possono relazionarsi con un minimo di regole condivise e fatte rispettare.
La dissoluzione dello Stato distrugge la convivenza civile, le possibilità di crescita economica, i mezzi stessi di comunicazione e al monopolio statale della violenza si sostituisce l’anarchia in cui comanda chi riesce a controllare il traffico di armi. L’accurata descrizione della situazione somala proposta da Nando Campanella in Via Po permette di ricostruire genesi e conseguenze della distruzione nazionale e dell’avvento di una “entità caotica ingovernabile”. L’autore spiega come “nella guerra civile somala, ambizione di potere, odio etnico, predazione, brigantaggio” si siano uniti e reciprocamente alimentati, individuando come bersagli i deboli (soprattutto le donne), i sedentarizzati (la forma di vita prevalente è quella nomade o seminomade) e “tutti coloro che non avessero un Kalashnikov o un’arma a portata di mano”. Tra i terribili effetti di questa situazione, oltre all’impoverimento progressivo del territorio, risulta di particolare gravità il tracollo del sistema scolastico e il conseguente analfabetismo delle nuove generazioni.
A fianco della Somalia, gli altri esempi più evidenti di “Eci” sono l’Angola e la Sierra Leone. Ma il fenomeno non è limitato a queste situazioni conclamate poiché purtroppo in molte aree del mondo la struttura territoriale dello Stato è sottoposta a fortissime tensioni: soprattutto in Africa (bacino del Congo e regione dei grandi laghi, il Sudan, la Liberia,) ma anche in altri continenti (si pensi all’Afghanistan, allo Sri Lanka, alla Colombia, alla regione caucasica e a quella balcanica). Ovviamente ogni situazione ha le sue specificità, che devono essere di volta in volta attentamente considerate.
Ma lo sfondo su cui generalmente si innestano queste disgregazioni è costituito dalla crisi economica e dal deficit crescente di legittimazione politica dei Paesi “in via di sviluppo”, in cui le politiche di aggiustamento e il debito pubblico diminuiscono drasticamente le già scarse risorse a disposizione, a fronte di una crescita demografica che rischia di diluire su di una massa di popolazione sempre maggiore gli interventi pubblici per l’alimentazione, l’istruzione, la sanità.
Oltre un certo limite di degradazione delle energie a disposizione dello Stato non si può andare senza che esso vacilli pericolosamente. Non si tratta ovviamente di esaltare comunque lo Stato, ogni Stato: il monopolio statale della violenza può essere declinato in repressione, carcere, tortura degli oppositori, censura della stampa, soppressione delle libertà democratiche. Ma il disfacimento del principio stesso della legalità statale taglia alla radice ogni possibilità di miglioramento, di democratizzazione. A quel punto la stessa comunità internazionale degli Stati fatica ad intervenire, a trovare interlocutori validi con cui negoziare la fine dei conflitti e definire le modalità di aiuto.