Diario di un viandante
Quando ti accingi a riprendere in mano quanto è passato sotto i tuoi occhi per tanti anni, hai l’impressione di fare un’operazione nostalgica o di semplice assemblaggio. Non succederà niente di nuovo. Il già detto è passato. Forse ha colpito pure nel segno, ma adesso rimane nascosto dietro i suoi codici. Pensavo che mettere insieme gli scritti di Giuseppe Stoppiglia sarebbe stato un lavoro materiale, che si sarebbe trattato di dare un filo, di ricostruire una trama; ma poi mi sono accorto che il filo c’era, e c’erano pure gli elementi dell’intreccio e dell’attesa curiosa.
Spesso gli scritti di Giuseppe iniziano dall’incontro con un uomo, una donna, un bambino, raccontato all’ombra delle montagne, nella brezza che percorre la valle e sussurra sulle piante e sugli olivi. È una conversazione lirica, fatta di ricordi, di inflessioni di voce, di pensieri più che di parole, di sguardi. Poi il cerchio si allarga, si avvertono rumori lontani, e voci vicine.
Volendo dare un’interpretazione agli articoli che ha accompagnato in questi dieci anni i lettori di “Madrugada”, si potrebbe usare una metafora. Sullo sfondo si vedono i lampi e i tuoni delle guerre, più lontane, più vicine; da lungi e da presso si sentono i tamburi della fame e delle migrazioni, dell’intolleranza. Un grande maestro delle cerimonie tutti dirige, detta le sue norme e segna i nostri passi, l’economico.
D’improvviso dallo spazio riservato all’orchestra squilla una tromba; poi si insinua il suono dell’oboe e danza sulla scena una donna, che alcuni chiamano illusione, altri utopia, altri chimera.
Le guerre, le migrazioni, le intolleranze, il mercato sovrano, e le paure che alimentano l’intolleranza sono la grande scena su cui domina una voce insistente; le voci della tromba e del flauto danno una nota diversa, un segnale di resistenza.
Ed è il filo che riemerge di continuo, anche attraverso i personaggi d’inizio pagina. Il filo che ci porta fuori insieme dal labirinto, per correre sui mari e spiccare il volo oltre la rassegnazione: ed è il filo della relazione e dello scambio. L’incontro con l’altro, l’altro straniero che denuncia insieme una ingiustizia sociale e politica, ma che chiede solo di fare la strada assieme a lui, condividendo la sua sfida. Magari pure l’incontro con un popolo che ti chiede solo di rispettare il suo diritto alla contemplazione.
L’altra cosa ricorrente in questa pagine è il processo educativo, al quale ciascuno di noi è chiamato a sottoporsi. Non è un percorso psicologico, ma un cammino culturale e politico; predisposizione ad una responsabilità reale e non velleitaria. Non serve togliere le paure con la psicanalisi o con l’accumulo di nuovi beni sempre più superflui. Il processo educativo non è finalizzato al consumo individuale, ma si realizza da subito nel rapporto, e costruisce un mondo nuovo; non più perfetto, ma più umano.
Questa è la conversazione di Giuseppe. Mai definitiva nei toni. Può sempre emergere la tromba oppure il flauto.
Sulla grande scena del mondo l’autore proietta le persone e le loro storie raccontate come un aneddoto; ed è invece il senso umano e compassionevole della proposta educativa e politica che emerge dalle sue riflessioni. I grandi progetti sono sempre coniugati con l’amore alla propria terra, agli uomini ed alle donne che la vita gli ha fatto incontrare, gli ha posto di fronte.
Gli scritti non sono predisposti per argomenti. Si dipanano seguendo l’ordine cronologico. A volte contengono qualche riferimento all’associazione Macondo di cui l’autore è presidente. Ma sono brevi, senza intenzione di proselitismo. Essi sono costituiti prevalentemente da articoli e da lettere ai soci di Macondo. I curatori si sono limitati a selezionarli e a restituire loro la forma “diaristica”, che in essi naturalmente traspare.
Pove del Grappa, maggio 1999