Il fascino discreto dei significati originari. Nel deserto l’incanto di orme perdute
“Nell’ebraismo ciò che importa
non è come sia Dio,
ma come sia l’uomo”.
[M. Horkheimer]
L’erranza a destino
e la solitudine a dimora
La caduta delle certezze mi ha aperto alla vita nello spaesamento, la sofferenza mi ha mosso alla viandanza e alla ricerca, ma ora è l’avventura del deserto, di quel diradare che si fa orizzonte, che mi dispone al dimorante esser solo nell’ascolto. Ho sempre disertato e temuto la solitudine quasi fosse una condanna, una sorta di carcere desolante che obbliga ad abitare le stanze del non senso. Da quando ne ho fatto la mia dimora, faticosamente edificata sulle fondamenta della sofferenza, ho conquistato l’amicizia del silenzio e accolto il dono del pianto. Il cadenzare dei passi si fa il tempo quieto dell’ascolto, il mio viandare un accogliente essere disposto al nuovo: lo schiudersi dei fiori, il sorriso di Enrico, il volto sereno di Yarona, la sua parola originaria. Il deserto mi si rivela nella sua dimensione autentica di paesaggio creativo, e mi ritrovo dolcemente condannato al senso di appartenenza alla Vita.
Non cose
Da tempo mi raccolgo nel grembo del silenzio, e adesso inizio a ricevere i frutti inattesi di questo fecondo pazientare. Doni che tento di stringere nel cavo delle mani, ma che non si lasciano trattenere perché non sono cose, non appartengono alla terra i significati serbati nel cuore della parola povera, nel suo avvento preparata dal silenzio. Povera, non mancante; iniziale e per questo gravida di avvenire, capace di portare l’anima a riposare nell’origine, lì dove ogni cosa acquista l’aspetto del dono e ogni incontro ed evento il suo senso.
Una voce dal deserto del Sinai
Questa la parola di Yarona, antica e pur sempre nuova, che nel suo dire penetra nelle fibre dell’esistenza lacerando il vestito logoro delle consuetudini, strappando dall’ovvietà di una quotidianità appiattente che dissolve ogni originalità nel risaputo, e mette di fronte all’inaggirabilità dell’impegno per il proprio sé, coappartenenza e intreccio misterioso di maschile (attivo immanente) e femminile (passivo trascendente). È un dire che invita a mettersi in stato di via, non a chiudersi nelle oasi di una interiorità dai tratti incerti, in una sorta di fuga, ritorno verso il sentirsi a casa propria nelle posizioni raggiunte. Solo quando si è in cammino l’accadere degli eventi indica la via, il presente diventa il tempo sacro, e gli incontri sempre nuovi dischiudono l’essere in rapporto come luogo privilegiato e momento opportuno della liberazione del sé autentico, nello spazio della relazione che è uno star di fronte di identità che si riconoscono nella diversità e una vicinanza, quella di mistero a se stesso. La relazione, dice Yarona, con l’anima gemella permette di fare l’esperienza trasformatrice dell’unità e dell’armonia paradisiaca, e mette in rapporto diretto con Dio. Un nuovo Dio bussa alla porta e invita al colloquio; lo stesso che sull’Horeb si rivela ad Elia come “voce di silenzio lieve”, e verso il quale Giobbe si rivolge con toni da bestemmiatore, “perché per Dio perfino la bestemmia è un tu, e non è ascritta a colpa quando sgorga in pieno dolore” (Erri De Luca). È un Dio di là da venire, che offre un segno e passa fugacemente senza mai darsi definitivamente (forse per non irretire a sostanza?), e che concede i volti come sua traccia.
Grazie
Serbo in cuore la tua parola, radice che porta e dona sostegno, cenno che indica la via sul cammino, capace di far attingere allo sguardo lontananze ultime, mai presuntuosamente definitive. Grazie, Yarona! Un abbraccio a te e al tuo popolo.