E in piazza c’era lei. A colloquio con Naja

di Grande Ivo

Una salita è una salita. Può essere irta e scoscesa, più o meno scivolosa, quel che è certo è che richiede comunque un certo impegno fisico.
La pendenza che caratterizza le salite qui a Todi è notevole, e per giungere dal monastero che ci ospita alla piazza centrale dobbiamo necessariamente arrampicarci per delle strade che assomigliano più alle mura verticali di una fortezza inespugnabile che a vie umanamente percorribili. Oggi gli altri sono andati con Mario Bertin a visitare i luoghi francescani, io invece sono rimasto qui, ho provato ad uscire verso mezzogiorno, mi sono arrampicato per qualche metro sulle strade in salita e ho desistito quasi subito, ché il sole a picco quasi mi spalmava sulla strada e ho deciso con coraggio di restarmene da solo con le suore.
Ma i ragazzi alle sei sono già di ritorno e Mirko mi dice qualcosa di incomprensibile in veneto (la lingua ufficiale di Macondo) che forse significa un invito ad andare in piazza.
Usciamo. Il sole tenue del tardo pomeriggio cuoce i nostri corpi a fuoco lento e le strade scorrono lentissime sotto alle nostre gambe, ma ce l’abbiamo quasi fatta, manca poco alla piazza pianeggiante bianca magico sepolcro di luce ci siamo quasi arrivati Mirko ed io sfiniti ma orgogliosi dell’impresa siamo proprio alle soglie della piazza quando Mirko pronuncia le seguenti parole: “C’è la Naja”. Inutile dire che non so minimamente cosa sia la Naja, anche se il tono stupefatto di Mirko mi lascia presupporre che la Naja sia una bellissima ragazza con la pelle giovane e abbronzata. Così alzo lo sguardo speranzoso e credo improvvisamente di essere vittima di un miraggio, naufrago nel deserto di Todi.

Lei, i Top Gun
La piazza non è una piazza. Almeno non lo è più. È interamente occupata da uomini in uniforme. Saettanti, scattanti, rapidi e battaglieri dietro ai fornelli, sopra a un carro armato, dentro a un percorso di guerra in tuta mimetica a tenere per mano i bambini. Già, perché quello che colpisce non è tanto l’assurda situazione di trovarsi in un accampamento militare nel bel mezzo di una piazza di un paese, non è tanto la colonna sonora di “Top Gun” a fare da ininterrotto commento sonoro alla situazione e non è tanto la soubrette simil-berlusconiana che interpella i giovani e i vecchi del paese su cosa pensino dell’esercito. Quello che colpisce di più sono i bambini. Tanti, tantissimi sono i bambini che corrono nel percorso di guerra, che salgono sui carri armati, che imparano dai militari a caricare un’arma con un proiettile. Provano il brivido di imbracciare un fucile vero, un fucile che se schiacci in grilletto spara un proiettile che trapassa la carne, le ossa e il sangue di un uomo. Questo imparano i bambini nel campo di battaglia di Todi. Piccoli, sorridono coi loro sorrisi bianchi, intervallati da qualche spazio nero laddove qualche dente è caduto. Sorridono con le armi in mano, sopra un carro armato, mentre guardano dentro a un mirino, sorridono i bambini di questa piazza che giocano alla guerra con le facce impiastricciate di crema mimetica.
Scendiamo con rassegnazione la strada che ci riporta al monastero che al ritorno è una discesa ripidissima, che ci sembra faticosa il doppio.
E a cena con tutti gli altri discutiamo su cosa è meglio fare: se andare a protestare, a manifestare il nostro dissenso, o piuttosto cercare un contatto verbale, per trovare un dialogo. Molti sono per il dialogo, per cercare di capire, per parlare. E allora torniamo in piazza tutti insieme e c’è l’entusiasmo e la paura di affrontare qualcosa di grande e più forte di noi che non ci piace e non ci sta bene.

Il generale e gli spaghetti
Cerchiamo il comandante eccolo qui piacere di conoscerla generale Graziani fiero tarchiato pelato e rubicondo, che per prima cosa ci propone uno show degno dei peggiori film americani sul Vietnam: si strappa il grado dalla divisa e si siede per terra per parlarci alla pari e urla spavaldo “Chi resta in piedi è un vigliacco”, e sono io il primo scemo a sedersi. Inizia ora quello che Graziani definisce in apertura di discorso un “dialogo” ma che sarebbe più opportuno definire “monologo”.
L’apertura è dedicata alle adulazioni: gli obiettori di coscienza sono esseri sublimi magnifici pulitissimi (qui a dire il vero esagera perché è molto difficile non sentirsi presi in giro), poi si gonfia di fierezza perché ci vuole difendere perché noi con i nostri dissensi siamo il sale della sua vita. Poi qualcuno riesce finalmente ad arrestare il profluvio torrenziale di parole e parolacce (che lo fanno tanto sentire un uomo vissuto) e a porre qualche timida domanda ma il generale non lascia neanche finire di parlare gli altri, ché quelle domande se le aspetta tutte, le spezza col suo tono stentoreo, e riparte con un monologo riuscitissimo e pittoresco, stavolta tira dentro anche Hemingway e Dio, in un delirio pulsante e passionale, nel quale trova anche il tempo di fare una domanda a una ragazza chiedendole: “Se ci sono dieci uomini che tentano di ammazzare un bambino e lei ha un’arma in mano e può sparare cosa fa, non spara?”. La ragazza ha un attimo di esitazione in più, e il generale non glielo perdona tuonando dall’alto dei suoi quasi sessant’anni e gioendo della vittoria. Bravo generale, sei riuscito a mettere a tacere un gruppo di ragazzi senza rispondere neanche a una loro domanda farcendo il tuo discorso di argute figure retoriche e motti da spaghetti-western.
Ci allontaniamo tutti per un po’ e discutiamo, riflettiamo, cantiamo.
Lei, generale è sempre lì a stringere le mani della gente di Todi che è tutta con lei, che la sostiene, che ha voluto che Lei e i suoi soldati veniste in questa piazza a insegnare ai bambini a sparare. E come Lei ci ha detto alla fine del suo ultimo discorso, è dovere di un genitore impedirLe di insegnare a sparare ai suoi figli, se è contrario. Altrimenti Lei si sente libero di educare i bambini alle armi in modo che da grandi poi potranno scegliere responsabilmente se usare o meno un’arma.
Sono stanco. Me ne vado. Lei, generale non ha risposto neanche a una delle domande che Le abbiamo posto, o meglio, non ci ha dato neanche la possibilità di formularne molte di domande e quando gliel’ho fatto notare mi è parso che abbia avuto un attimo di trasalimento mentre ascoltava il silenzio dei cittadini di Todi che attendevano invano una delle sue risposte argute. Ho provato piacere, lo ammetto, a vedere per un attimo lo smarrimento nel Suo sguardo, e se ne è accorto anche il sergente che non è riuscito a nascondere la sua rabbia e mi ha detto fra i denti che se non ero soddisfatto delle Sue risposte potevo parlare con lui.
Ma nessuno di noi ha più voglia di parlare né con Lei né con il sergente, anche perché i Suoi bei monologhi significano molto probabilmente che noi abbiamo ragione, ma che è comunque Lei a comandare e a decidere per noi. Vada a dormire, è tardi, tra poche ore come Lei ci ha ricordato, dovrà alzarsi presto: anche domani infatti Le toccherà essere in un’altra piazza di un’altra città ad insegnare ai bambini a sparare.

Ivo Grande
Macondo Giovani
studente universitario
Siena