Interculturalità

di De Vidi Arnaldo

“Oh, il peso della cultura
non è piccolo!
La cultura ha quasi
il peso del mondo!”.


“Il nostro primo compito
nell’avvicinarci ad un altro popolo,
ad un’altra cultura, ad un’altra religione,
è toglierci le scarpe, perché il luogo
al quale ci stiamo avvicinando è sacro.
Qualora non ci comportassimo così,
correremmo il rischio
di schiacciare il sogno altrui.
Peggio ancora: correremmo il rischio
di dimenticarci che Dio
già stava lì,
prima che noi arrivassimo”.
[Anonimo latinoamericano]



La non leggerezza della cultura
Nel 1952 Kroeber e Kluckhohn elencarono quasi 300 definizioni di cultura e ne analizzarono 164. Altre definizioni furono elaborate in seguito, senza numero.
C. Geffré definisce la cultura così: “Un vincolo invisibile, però molto stretto, che unisce una persona ai suoi predecessori, contemporanei e successori. Appartenere a una cultura equivale a radicarsi in una tradizione concreta, essere invitato ad abitare il mondo con un determinato linguaggio”.
Nel suo libro Filosofia e cultura dell’Europa di domani, G. Battista Mondin scrive: “Secondo la definizione di Christopher Dawson, la cultura è “la forma di una società”: è ciò che unisce tra di loro i membri di un gruppo sociale, un popolo, una nazione e, allo stesso tempo, li distingue dai membri degli altri gruppi sociali. Così, per esempio, la cultura francese è ciò che unifica e distingue i francesi, la cultura tedesca i tedeschi, la cultura polacca i polacchi, la cultura croata i croati, la cultura ucraina gli ucraini. Si tratta di un vincolo profondo, vitale: è l’anima di un popolo, di una nazione. Per essa si è quindi disposti a pagare qualsiasi prezzo: per essa si combatte e si muore. [,] La cultura è una realtà estremamente complessa, in quanto abbraccia tutto ciò che la genialità e l’operosità di un popolo riesce a produrre: dalle scarpe, [,] ai monumenti, [,] alla televisione”.

La tazza e l’arco
Per comprendere cos’è cultura, la metafora illustra meglio della definizione.
La cultura è una tazza. Un pellerossa disse (all’etnologa Ruth Benedict): “Dio diede ad ogni popolo una bellissima tazza, ciascuna diversa dalle altre. Grazie alla propria tazza, ogni popolo può attingere l’acqua della vita. La nostra tazza è stata rotta e noi siamo destinati a morire”.
La cultura è un arco. Un discepolo chiese al suo maestro: “Cos’è cultura?”. Il maestro non rispose verbalmente, ma scoccò tre frecce: su un albero, sulla silouette di una persona e su un’alta figura totemica. Quindi disegnò tre bersagli intorno alle frecce. Il discepolo si inchinò in segno di ringraziamento. Aveva capito: cultura è il rapporto di un popolo con la natura circostante, con i suoi simili (il suo gruppo sociale) e con il mondo simbolico. Inoltre ogni popolo ritiene di aver centrato perfettamente il rapporto con le tre realtà.
Le due metafore ci fanno capire che la cultura è vitale, globale e, tendenzialmente etnocentrica, cioè ogni gruppo ritiene che la sua cultura sia la migliore. Relativismo e dialogo culturali non sono spontanei; devono quindi essere oggetto di una proposta educativa. “Il concetto di interculturalità, per il pedagogista, è un concetto forte, perché interculturalità non appartiene ai fenomeni naturali, ma dev’essere voluta e provocata” (Duccio Demetrio).

Quale futuro per le culture
“Oggi abbiamo estremo bisogno di mondiologhi” – disse Ernesto Sabato. Chi scrive su questo tema diventa famoso e vende bene. Ma mondiologhi dobbiamo diventare tutti. Significa diventare “esperti in umanità” (Paolo VI) in un’era in cui il mondo è diventato villaggio globale.
Parlando di interculturalità nella società odierna , ci sono posizioni differenti.
C’è chi propone una megacultura basata sull’economia e la comunicazione, e la definisce come il punto d’arrivo della storia (Francis Fukuyama).
Altri propongono di limitare la convivialità e riconoscere che ci sono culture incompatibili come quella confuciana, islamica e occidentale (Samuel Huntington).
Altri chiedono ogni sforzo per l’universalismo, denunciando una perniciosa tendenza attuale al fondamentalismo (Fernando Savater).
Altri, partendo dal fatto della planetarizzazione dei problemi che concernono natura, società e simboli, concludono che la cultura non può più essere regionale, ma planetaria (Ernesto Balducci).
Altri, infine, parlano del “villaggio mondo” dove per sopravvivere ci vuole una visione olistica, un’analisi sistemica dei problemi e un intervento sinergico nelle soluzioni, in vista della triade pace, sviluppo e ambiente (Johan Galtung).
Fra tante proiezioni dobbiamo tracciare il nostro cammino:
1. interculturalità non significa minimamente adesione alla megacultura. Essa comincia con l’accettazione delle differenze in casa, a scuola, nella regione, nella nazione, con il radicamento locale, il dialetto,; dobbiamo scongiurare il ripetersi di ciò che avvenne nella conquista dell’America: la morte di centinaia di culture;
2. occorre rivisitare criticamente certi stereotipi (il nero, il barbaro, lo zingaro, il terrone,) e rileggere la storia partendo da un approccio interculturale e dall’ermeneutica dell’altro;
3. occorre riconoscere che ogni cultura è buona e limitata, può quindi arricchirsi del dialogo con le altre, a condizione che sia libera e abbia chiara la sua identità (la nostra cultura avrà molto da ricevere dalle “culture di sobrietà”);
4. bisogna avere il coraggio anche del dialogo interreligioso.

Dal limite al dialogo – Harry Truman
Ma il vero dialogo, quello fecondo e fraterno, è possibile quando le culture si incontrano sullo stesso piano, senza complessi di superiorità/inferiorità. In altre parole, io devo accostare le altre culture con la coscienza che la mia è degna, valida e, limitata. Infatti, il dialogo è possibile solo tra due poveri. Se io mi considero povero e povero si ritiene anche il mio interlocutore, allora nell’incontro ci arricchiamo vicendevolmente. Qui povero non vuol dire miserabile, pitocco, ma limitato. Il povero ha una sua dignità; nel nostro caso, occorre che colui che dialoga abbia chiara la sua dignità e identità, senza la quale né può arricchire l’interlocutore, né ricevere con la necessaria libertà i doni dell’interlocutore che gli possono essere utili. La storia ha registrato più di un dialogo mancato.
Riteniamo, per esempio, il 20 gennaio 1949 una data molto triste della nostra storia recente. Il presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, lanciò il Point Four del suo Development Act, nel quale si diceva disposto ad aiutare i paesi del Sud del mondo perché erano sottosviluppati. In quell’occasione il mondo fu diviso in due parti sulla base dell’economia e della tecnologia, dimenticando le culture di sobrietà dei popoli del chiamato terzomondo. Solo ora stiamo prendendo coscienza della tragedia provocata da quell’atto: durante quasi cinquant’anni i popoli del Sud accettarono di vedere se stessi come “pitocchi”. Rimasero “in via di sottosviluppo” proprio per questo equivoco; perdendo la loro cultura-identità, la loro situazione generale è peggiorata; è peggiorata perfino la loro situazione economica.

L’inteculturalità che cos’è
Abbiamo seminato molti elementi, come fili, sulla natura dell’interculturalità. Adesso si rende necessario annodarli per avere una visione d’insieme. Per capire cos’è interculturalità, possiamo dire prima cosa non è.
Ci sono situazioni in cui non si ammette pluralità, c’è un graduale processo di azzeramento delle differenze in favore del monoculturalismo. Questa non è interculturalità, ma omologazione o pensiero unico.
Ci sono situazioni in cui gruppi culturali diversi coesistono l’uno accanto all’altro senza necessariamente interagire tra di loro, se interagiscono lo fanno con un rapporto oggettuale, estrinseco, cumulativo, enciclopedico. Questa non è interculturalità, ma multi o pluriculturalità.
Ci sono situazioni dove persone di culture diverse interagiscono. Lo fanno intenzionalmente, dentro di un progetto educativo, frutto di una scelta. Lo fanno con rapporto soggettuale, intrinseco, interattivo, epistemico. Questa è interculturalità (cfr. A. Nanni, L’educazione interculturale oggi in Italia, EMI, Bologna 1998, pagg. 27-30).
Non mancano documenti che parlano di interculturalità. Specialmente decreti e circolari del Ministero della Pubblica Istruzione. Ci limitiamo a riportare un passo della circolare n. 73 del 2 marzo 1994 che annota puntualmente: “È da sottolineare che l’educazione interculturale non si esaurisce nei problemi posti dalla presenza di alunni stranieri a scuola, ma si estende alla complessità del confronto tra culture, nella dimensione europea e mondiale dell’insegnamento, e costituisce la risposta più alta e globale al razzismo e all’antisemitismo. Essa comporta la disponibilità a conoscere e a farsi conoscere, nel rispetto dell’identità di ciascuno, in un clima di dialogo e solidarietà”.
Sull’interculturalità si è pronunciata, in termini felici, la Commissione Giustizia e Pace (della CEI): “In primo luogo è da richiamarsi la responsabilità dei luoghi e delle forze educative, che devono proporre e aiutare la comprensione delle differenze, passando dalla cultura dell’indifferenza alla cultura della differenza, e da questa alla convivialità delle differenze, senza per questo sfociare in forme di eclettismo nei riguardi della verità o di indifferenza di fronte ai valori della vita. Quest’opera di promozione educativa deve essere sostenuta da tutti e deve essere accompagnata non solo dai singoli e dai gruppi, ma anche dall’organizzazione giuridica della società e dai suoi comportamenti. Pertanto, anche sul piano legislativo bisogna che si passi da un approccio che tiene presenti soltanto le esigenze monoculturali, ad un altro aperto a logiche più ampie di tipo interculturale”.

Arnaldo De Vidi
direttore di CEM
Mondialità, Brescia