Cent’anni di solitudine

di Comitato di Redazione

Caro lettore e cara lettrice,

vedere contro luce, è un po’ come sapere anzi tempo; oppure vedere contro sole, al mattino, appena sveglio, che non sai dove andare e ti guarda sorridendo l’astro nascente. Per questo sono permesse a questa penna molte improprietà, soprattutto se è un incosciente che si prende la briga temeraria di scrivere, anzitutto.
Attraverso la tromba del guscio entriamo nell’atrio del monografico dedicato al Sud, perché con questo numero tentiamo di percorrere una omogenea strada divaricante. Servendosi di un dizionario tutto da costruire, per cui manca l’editore, ma non la materia, Manghi ci illustra i vari Sud del mondo, senza escludere i nord del Sud. Segue Paola Stradi con il suo Sud interiore, a volte stranito, a tratti poeta, a momenti stregone, legato alla terra, alla fragranza solare del pane, che si scioglie e spasima e prorompe e grida nella sua musica di guitto e di cantastorie. Forse tu già lo sapevi; ma io che lo avevo letto di giorno e di notte, incupito ed esaltato come i suoi personaggi, ho riscoperto nelle pagine di Demarchi un Macondo più ricco, in cui la donna è il perno della vita, e non dell’ansia; in cui la solitudine aspira alla solidarietà; e dunque non ad omologarsi, ma ad uscire dal recinto; ed in cui realtà e magia si fondono; in cui la scrittura non è un gioco; non è un impegno, ma solo poesia.
Olivier Gravier da Velletri propone un’ipotesi storica: se avesse vinto Franceschiello e aggiunge alla provocazione lo scandalo di continuare l’analisi storica con una favola popolare, fatta di prove, di amori conquistati, perduti e ripresi forse per sempre. Una storia d’Italia di cui i libri non parlano. Infine Michele del Gaudio ci parla di legalità al sud e scrive tre lettere ai fratelli della camorra, ai fratelli sacerdoti e ai ragazzi; per spedirle non basta un francobollo. Il suo senso, l’ordito e la tessitura, forse ogni notte viene sfilato dal telaio, e ricomposto il giorno tra pianti e grida; richiami, ricami e tarantelle; con pazienza e senza la logica tronfia del potere che vuole stare comunque sopra.
In controcorrente, con il carrello in controluce, mentre cala il vento che soffia sugli occhi e non vedi l’avversario che ti colpisce al cranio, Giuseppe tenta di ricomporre frammenti di umanità, quasi tecnico di montaggio dei sospiri e degli aneliti, che è la ricerca di un filo che ha il suo nodo nella palpitante vita dell’incontro.
Raccogliendo ad ogni angolo voci, indicazioni, notizie, nel grande consesso dell’ONU, Barbara Fabiani delinea la nascita di un tribunale per fermare la razionalità delle guerre che ci offrono il conto logico di inutili massacri.
Ora gli occhi prendono confidenza e guardano il quaderno di Francesco alla rubrica diario minimo che raccoglie i frammenti, i petali e le spine del tempo che ancora battono sulla torre del castello; infuriano le grida dagli spalti e l’urlo di chi è ferito; s’accende un petardo nel cielo e un fuoco arido in fondo agli occhi.
Tornando dalla cena dei ricordi, Marco Lazzaretto non accende il televisore ma apre il cassetto delle utopie.
Chiude la Pia, con una sequenza di foto che racconta di anziani che hanno voglia di futuro, anche se da sempre si tenta di calare il sipario, perché così vuole il ciclo della vita, dicono; ma prima non dimenticare la cronologia, a futura memoria di chi non incide sulle lapidi i suoi trofei, e ascolta il canto dei trovatori.