All’incrocio delle acque del Rio Tapajos

di Scotton Giuseppe

Caro Edilberto,
è difficile esprimere a parole i sentimenti e le emozioni che un’esperienza vissuta con te, per due settimane, suscita nel cuore.
Forse l’utopia di Macondo si realizza in Lago Grande.
È inspiegabile come nel nulla, nel vuoto, si possa scoprire la pienezza spirituale ed interiore. Il vero senso della vita, una serenità fatta di piccole cose, d’atti apparentemente insignificanti, e sono quelli che danno significato alla nostra esistenza.
Il contrasto è enorme e forse sconvolgente, ma alla fine la naturalezza prevale, emerge con tutta la sua forza e si prende la rivincita nei confronti del Primeiro Mundo pieno di frenesie e di sistemi schiaccianti.
Chi siamo, dove andiamo, qual è il senso della nostra vita in ogni modo borghese anche nella casta dei cosiddetti poveri che bazzicano nelle organizzazioni di solidarietà vantando una prerogativa di condivisione esclusiva.
Qui da noi non esiste la povertà, ma imperversa la miseria umana, in Lago Grande forse esiste, ma così dignitosa e a volte gioiosa da far pensare che sia la meta spirituale di ognuno.

Una parentesi esplicativa

Non fraintendermi, Edilberto, dormire in amaca lottando con zanzare, pipistrelli, topi, ragni e scarafaggi, in una capanna di paglia con pareti di legno e terra come pavimento, non è il massimo dell’aspirazione umana.
Andare nel gabinetto, se c’è, ai bordi della foresta, bagnarsi nel Rio o nell’igarapé per lavarsi, percorrere strade impossibili e fatiscenti, avere la luce tre ore per notte, forse, mangiare riso, farina, fagioli e, nell’occasione buona pesce e/o pollo, non è il massimo del desiderio.
Arrangiarsi a viaggiare in una barca piena d’amache, di sacchi di farina, cercando di riposare e/o dormire, urtandosi in mezzo ad altri con tolleranza e rispetto silenzioso, vivere senza telefono, senza giornali, con un po’ di televisione neoliberista che di bello ha solo lo sport, non è il sogno della vita; sballottarsi nel fuoristrada in una pista nella foresta, trasbordare su di una canoa, viaggiare sempre in pericolo, inizialmente può soddisfare anche lo spirito d’avventura, ma alla fine diventa ansia, preoccupazione e sofferenza.
Nonostante tutto ciò, e non è tutto, alla fine si sta bene, si vive bene e ti senti sereno.
Non è l’alternativa della vita, ma è un momento di forte recupero di se stessi, nell’incontro con l’altro che ti aspetta per darti se stesso, quello che ha senza chiedere nulla, ringraziandoti per la tua presenza.
Questa non è povertà, è richiesta di valori, nel saluto di accoglienza e nell’abbraccio forte di commiato.

La cosa più viva è la speranza

Quanti bambini, ragazze madri, disordine familiare, diseducazione voluta da oscuri disegni politici, mancanza di strutture sanitarie, pressappochismo nell’affrontare i problemi sociali, eppure ci sono fermenti vivi, lotte tenaci, impegno a cambiare, progetti a non finire, forse anche troppi, perché favoriscono la dispersione.
La cosa più viva è la speranza, la fiducia, l’ottimismo, la musica, il canto, la danza, la festa.
È questa la molla che spinge decine di persone ad attraversare a piedi di notte, foreste e laghi e fare 100 chilometri e più in bicicletta per strade interrotte. Per incontrarsi, per discutere, per animare, per dibattere, per creare, per coordinare, per condividere, per pregare, per stare con il proprio vicario e con l’altro.

Tra la gente
con la gente

E nel mezzo di tutto questo ci sei tu, Edil, che brilli come le stelle della Galassia Cruz do Sul dell’incredibile cielo dell’Amazzonia.
Grazie di esistere per permettere a chi ti conosce di apprezzare il vangelo vissuto, espressione di una fede vera, non di misticismi deboli. Per avvicinarsi a Dio su questa terra, tra la gente, con la gente, specie se più bisognosa, emarginata, dolente, povera, senza casa, senza aiuti concreti.
Pensavo di fare un riassunto del mio diario, e non ho raccontato niente; non ho parlato di Donna Gloria, tua madre, persona squisita, di tua sorella Esmeralda, cuoca eccezionale, d’Euza ospite perfetta, del marito Renato e figli, e dei tuoi numerosi fratelli e parenti; della loro accoglienza, della loro amicizia, compagnia, disponibilità.
Non ho parlato della tua Santarem, dell’incrocio delle acque del Rio Tapajos con il Rio delle Amazzoni, di Altar do Chao, della spiaggia di Maracanà, del porto, delle feste nel Tapajos.
Non ho parlato di Curuai, di Toron, di Pirocuara, di S. Antonio…
Non ho parlato dello sbarco fantozziano a notte fonda con passerella in acqua nel buio pesto con trasloco a bordo del Taxiboi (carro con il bue), lampeggiare di pile e sistemazione nella tua casa parrocchiale.
Non ho raccontato tante altre cose, ma oggi ho sentito di scriverti questo, che sgorga dal mio cuore.
Ciao, ti voglio bene e grazie della tua amicizia.

Pino