I luoghi della storia, i luoghi della speranza
Grottesco, ironico Diego
A Città del Messico, all’interno del Palazzo Nazionale, vi è un grandioso dipinto realizzato da uno dei massimi muralisti messicani: Diego Rivera. È l’illustrazione della storia del Messico per immagini: le diverse civiltà precolombiane, la struttura originaria della capitale Tenochtitlan, e poi l’arrivo degli spagnoli, la fucilazione di Massimiliano d’Asburgo, i vari presidenti del paese, le lotte contadine, la nascita della classe operaia…
Salendo lo scalone che conduce al secondo piano e percorrendo poi il corridoio esterno che corre intorno al patio, la vista si riempie di un ininterrotto susseguirsi di volti, figure, cavalli, armi, bandiere, attrezzi da lavoro, animali, piante. Non ci sono spazi vuoti, tutto è pieno e continuo. Fatti e tempi diversi si toccano nel procedere di una storia orizzontale. Non c’è retorica celebrativa, esaltazione eroica, piuttosto ironia o un tratto ferocemente grottesco: tutti, in ugual misura, sono protagonisti su questo palcoscenico che Rivera dipinse tra gli anni ’40 e ’50.
Storia orizzontale
Squarcio nel presente
Ma la storia è ancora in corso e Rivera non avrebbe certo mancato di aggiungere al suo affresco il massacro di Tlatelolco, gli anni del salinismo e gli zapatisti di oggi, perché la storia del Messico ha un procedere orizzontale e così come sopravvivono le culture indie vive anche Emiliano Zapata.
Credo che per noi europei sia difficile da comprendere questo rapporto con la storia: per noi molto spesso solo esercizio di memoria, ricerca nel passato, nei documenti, negli archivi; a volte storia orale, ma solo per ciò che dista poche generazioni. In Messico la storia è squarcio del presente, è risveglio, è presa di coscienza dell’essere in questo tempo.
La sollevazione zapatista del ’94 ha contribuito ad illuminare questa storia, ha mostrato al paese una delle sue facce, la più antica, la più triste, ma anche la più carica di speranza: ha mostrato le sue origini indie, ha mostrato come in una regione ricchissima di risorse la popolazione viva in estrema miseria, ha mostrato uno sfruttamento ancestrale e il volto moderno di una cultura antica. Nello stesso tempo, però, si è potuto vedere l’unirsi delle forze, l’elaborazione di proposte, la modificazione dei conflitti. Nel momento in cui sulla scena compariva dirompente la denuncia in armi di una popolazione flagellata e costretta alla pura sopravvivenza, si è fatta strada la speranza di un futuro differente.
La speranza contamina,
ma non uccide
Le richieste degli zapatisti (tetto, terra, lavoro, pane, salute, educazione, informazione, cultura, indipendenza, democrazia, giustizia, libertà, pace) sono diventate le richieste della società civile messicana, non solo dei 27 milioni di poveri, ma anche della classe media, di chi percepisce tutta l’instabilità dell’anomalo sistema “democratico” messicano.
Ed è così che il Chiapas diventa un laboratorio politico.
Le proposte dell’EZLN rivelano una grande capacità di aggregazione: donne, lavoratori, studenti, intellettuali, gruppi di scontenti, ovvero quella parte del paese che non ce la fa più a sopportare le piccole e grandi vessazioni quotidiane, fanno proprio il ya basta lanciato dagli zapatisti come parola d’ordine. Secondo alcuni sta proprio nella individuazione di obiettivi di lotta che appartengono al vivere quotidiano, che riguardano il miglioramento delle normali condizioni di vita, la forza di mobilitazione dell’EZLN.
Lo scoppio della rivolta ha resa manifesta una situazione comune di malessere e sofferenza, tanto che le condizioni estreme della popolazione del Chiapas sono state scelte per rappresentare il disagio di un intero paese. Forse per la prima volta in molti anni, si è avuto un riconoscimento che ha fatto sì che gli abitanti di una megalopoli come Città del Messico potessero avvertire come proprie le rivendicazioni dei contadini chiapanechi.
Che cosa ha reso possibile tutto questo?
Identificazione e protagonismo
C’è un altro slogan nei cortei: Todos somos Marcos.
A prescindere dalle differenze specifiche di classe sociale, di regione, di lingua, di etnia, si produce una identificazione che oltrepassa le singole individualità per toccare qualcosa di comune e profondo: la condizione umana.
Il significato del vivere umano, la qualità dell’esistenza diventano oggi tema di discussione politica. Nasce la consapevolezza di una nuova forza, costruttiva, che non delega più, che trasforma la sfiducia in un sistema falsamente democratico, come quello messicano, nella speranza di un futuro dove coloro che governano manden obedeciendo (comandino obbedendo).
Anche in questo caso è la storia orizzontale che riappare. Viene messo in discussione il concetto di democrazia come puro meccanismo elettorale. Che valore può avere una democrazia alla luce di un crescente astensionismo, di brogli, di governi che sono espressione di una parte minoritaria della società?
Si riscoprono, invece, le forme di autogoverno proprie delle comunità indigene: la democrazia diretta, l’assunzione di una responsabilità che sta nel fare e non nel dire, un dirigere che viene sottoposto al giudizio continuo di tutto il villaggio.
Que viva a vida
Ogni uomo è chiamato a ricoprire un ruolo e ad assumersi un carico all’interno della comunità cosicché la costruzione del futuro, l’apertura alla speranza diventa compito di ciascuno, nell’interesse individuale e collettivo.
Quando si visita un villaggio zapatista, ciò che colpisce è la vita, sentire la vita che si sprigiona da luoghi dove la morte è sempre in agguato, per cause naturali (virus, infezioni, malattie…) o per mano militare: è la costante presenza di bambini di tutte le età e lo sforzo continuo di organizzazione, di partecipazione, di discussione, che trasmette la sensazione di una tenace, anche se faticosa, spinta in avanti.
I dimenticati, i dannati della terra, gli uomini senza volto stanno riprendendo la parola, stanno acquistando voce; la storia, che sembrava averli chiusi in un angolo buio, si riapre, ed è la loro presenza che ora indica anche a noi un nuovo orizzonte di speranza.