Le rivelazioni di un eretico. La parabola del buon Samaritano
La domanda sul senso
Ad un saggio d’Israele che un giorno gli chiese quale fosse il senso della vita, Gesù rispose con una storia: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto. Per caso un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi caricatolo sopra il suo giumento lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”. E, rivolto al suo interlocutore, aggiunse: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”” (Lc 10, 31-17).
La relazione o incontro
Il senso della vita, il chiedersi cioè come uscire dalla noia e dal vuoto per realizzarsi ed essere felici, trova risposta solo nell’incontro: quando l’io esce dal suo io e si trova di fronte all’altro. Quando si è in crisi, il modo migliore per superarla non è, per il racconto evangelico, guardarsi, scrutarsi, analizzarsi, interrogarsi, spesso torturarsi e flagellarsi (indagini come queste sono destinate per lo più al fallimento perché invece di infrangere le catene dell’io ve lo avvinghiano sempre più ostinatamente), bensì rispondere all’altro che l’io non sceglie ma che all’io va incontro. Il samaritano non sceglie di incontrare il malcapitato che giace mezzo morto sul ciglio della strada ma se lo trova “per caso”, al di là e contro il suo desiderio, iniziativa o progetto: ed è in forza di quest’altro non scelto ma incontrato che egli accede al senso della vita, della sua vita.
L’incontro con l’altro che dischiude il senso (la “vita eterna”, in termini evangelici, che non è la vita dopo morte ma la vita di ogni giorno sottratta al nonsenso), non è quello dove l’altro è cercato e desiderato bensì quello dove egli, né cercato né desiderato, si erge di fronte all’io e con la potenza della sua impotenza (niente è più impotente di un malcapitato che, come quello della parabola, giace mezzo morto sul ciglio della strada) lo sottrae a se stesso dischiudendogli la libertà “escatologica”, cioè ultima e autentica.
È qui che va colto il primo significato del racconto di Gesù alla domanda del dottore: il senso che tu cerchi non lo trovi in te ma nella relazione con l’altro, qualsiasi altro, dovunque incontrato, in ufficio, a scuola, in strada, in piazza, sull’autobus o in qualsiasi altra parte; esso non inabita l’io e neppure chissà quali mondi misteriosi e lontani bensì l’altro in quella sua nuda alterità rappresentata, nel racconto evangelico, dal povero malcapitato abbandonato sulla strada. E’ a partire da questa alterità nuda e impotente, incapace perfino di gridare e invocare (del malcapitato non si dice, infatti, neppure che stesse gemendo!) che, per l’io, si dischiude il senso: come se da quella alterità splendesse una luce al cui chiarore l’esistenza, come la pagina di un libro, si fa leggibile.
La potenza di questo messaggio non ha solo un risvolto soggettivo e personale ma anche, soprattutto, culturale e epocale, perché messa in discussione sia dei modelli individualistici che di quelli totalitari in cui sembra esaurirsi il dibattito culturale. Più importante dell’io e più importante del gruppo c’è, per la bibbia, la relazione tra l’io e il tu, che per questo Buber pone a principio stesso del reale: “in principio c’è la relazione”. La sfida più grande di fronte alla quale ci troviamo è di ripensare l’umano e il convivere degli umani sul principio relazione: principio che de-assolutizza sia le ideologie individualistiche, incentrate sull’Io, che quelle organicistiche, incentrate sul Tutto (stato, nazione, regione, religione, etnia, comunità, gruppo, sette, movimenti, ecc.), e ridefinisce il senso dell’uno e dell’altro non come fini in sé ma come servizio al “tu” e al “volto”.
La relazione mancata
Ma più che affermazione della relazione in astratto, la pagina evangelica è prima di tutto racconto della relazione mancata: “Per caso, un sacerdote scendeva per quella strada e quando lo [il malcapitato che giaceva mezzo morto] vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre”. Il “sacerdote” e il “levita”, credenti e rappresentanti del sacro, si imbattono con l’altro ma mancano l’incontro: vedono, ma passano oltre. Abbiamo qui descritto il dramma della relazione mancata, dove c’è un “vedere” (“lo vide”) ma che non giunge a compimento perché subito interrotto e contraddetto: “e passò oltre dall’altra parte” (il termine greco esprime contemporaneamente l’idea di interruzione e di oltrepassamento). Il sacerdote e il levita “vedono”, ma il loro è un “vedere” superficiale che non si conclude; è un “vedere” che resta in realtà un “non vedere”. Per questo continuano per la loro strada, come se nulla fosse capitato né a loro né al povero disgraziato massacrato dai briganti.
Ma cosa non vedono? Che il malcapitato è ferito, percosso e mezzo morto? No, essi vedono tutto questo, come il racconto sottolinea volutamente per ben due volte; essi “lo vedono”, cioè sanno che chi giace lì è un povero disgraziato. Ma quello che non “vedono” è che quel disgraziato li riguarda. Ma come e perché, se neppure lo conoscono ed è un estraneo?
Ciò che il sacerdote e il levita non vedono e non colgono è l’alterità dell’altro in quanto altro che, al di là dell’appartenenza (“è uno dei nostri”) e al di là della desiderabilità (“può essere interessante”) è vocazione ed elezione del loro io a rispondergli. Il levita e il sacerdote non colgono questa alterità invocante ed appellante che, accolta, li avrebbe introdotti nella “vita eterna”, cioè nello spazio del senso. Per questo la loro è una relazione mancata e in essi non si accende l’evento dell’incontro liberante.
La relazione riuscita
Ma è soprattutto sulla relazione riuscita che il racconto evangelico insiste: “Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi caricatolo sopra il suo giumento lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”.
A differenza del sacerdote e del levita il samaritano, che i benpensante di allora ritenevano eterodosso ed eretico (oggi si direbbe un infedele o un ateo), “vide” il malcapitato “e ne ebbe compassione”. L’altro lo si vede veramente quando, al di là dell’appartenenza che lo lega all’io e al di là della desiderabilità che lo rende attrattivo, se ne coglie la dimensione di povertà e di bisogno anteriormente al suo stesso essere buono o cattivo, e ci si china su di essa come sulla propria stessa sofferenza. L’altro lo si vede e lo si incontra realmente e non superficialmente quando, come il samaritano, lo si avvolge nello sguardo di compassione recettiva (“mi accorgo del suo patire”) e attiva (“elimino il suo patire”), scoprendo, in questo, la propria singolarità più profonda e realizzante.
È questa la ragione per la quale la relazione di compassione è la relazione umana autenticamente riuscita. Gesto divino (“solo Dio può fare attenzione ad uno sventurato”, essendo “contro natura”, ricorda con forza Simone Weil!), accolto e acconsentito, la compassione instaura un umano che al suo centro, invece della forza del giudizio e della condanna, pone la potenza della tenerezza perdonante: “Spesso ci aspettiamo dagli altri più di quanto noi stessi siamo disposti a dare. Perché finora abbiamo riflettuto in modo così poco obiettivo sulla debolezza dell’uomo, e su quanto sia esposto alla tentazione? Dobbiamo imparare a valutare gli uomini più per quello che soffrono che per quello che fanno o non fanno. L’unico rapporto fruttuoso con gli uomini – e specialmente con i deboli – è l’amore, cioè la volontà di mantenere la comunione con loro. Dio non ha disprezzato gli uomini ma si è fatto uomo per amor loro” (D. Bonhoeffer).
L’io responsabile o solidale
La relazione di compassione che, per il racconto evangelico, fa dono del senso dell’esistenza, è una relazione nuova e paradossale che sovverte tutte le altre e instaura l’io come essere responsabile: non essere di bisogno che, in quanto essere di bisogno, va verso l’altro per arricchirsene e colmarsene, bensì libertà d’amore e volontà di bene che, trascendendo il suo essere di bisogno, pone il suo io a servizio dell’altro. La responsabilità biblica, di cui il samaritano del racconto evangelico è il paradigma insuperabile, non consiste, pertanto, nel rispondere a se stessi delle proprie scelte e delle conseguenze da esse derivanti (una responsabilità così intesa è piuttosto sinonimo di coerenza) bensì nel prendersi cura dell’altro (l’altro essere di bisogno, invocante “pane” e “perdono”), sovvertendo la logica dell’io-per-l’io ed instaurando quella dell’io-per-l’altro. L’io responsabile (o, con termini equivalenti, l’io “solidale”, “etico”, “giusto” “buono” o “santo”) è l’io che, rinunciando a “prendere” e “comprendere” l’altro, si lascia svuotare, deporre e dimissionare dal suo volto indifeso e inoggettivabile.
L’io responsabile o solidale, adombrato dalla pagina evangelica come il tratto fondamentale dell’antropologia biblica, lungi dall’essere una formula suggestiva e accattivante, vuole e deve essere la risposta alla crisi della postmodernità in atto: crisi che Andrea Pase, in uno degli ultimi numeri di questa rivista, descriveva con il simbolo del deserto (I deserti della postmodernità e le oasi del senso) e che Sergio Givone trova espressa efficacemente nella metafora del malato che si illude di trovare sollievo mutando continuamente posizione sul letto. Si tratta di una crisi che attraversa tutti gli ambiti dell’umano (la soggettività, le relazioni interpersonali, il lavoro, la produzione, la distribuzione del denaro e delle risorse, ecc.) e che, in un mondo divenuto per la prima volta villaggio a causa soprattutto dell’informatica e del mercato planetario, coinvolge indistintamente tutte le istituzioni (laiche, religiose, scientifiche, giuridiche, economiche, ecc.).
L’io responsabile, che non si definisce in rapporto al proprio io bensì in rapporto alla priorità dell’altro e della sua felicità, non teme la crisi in atto, essendo il suo io da sempre in crisi, per la presenza dell’altro impossedibile e inoggettivabile. Per questo egli è nelle condizioni migliori per ridisegnare un mondo (a partire dal quel piccolo “pezzo di mondo” nel quale e del quale egli vive quotidianamente) dove, al posto dell’io imperialista e solitario, splenda il povero (o, in termini di Lévinas, il volto) inerme e disarmante: l’unico assoluto che inabita la storia e che, con la potenza della sua impotenza, come la folgore nella notte, vi accende il senso. Il senso come non indifferenza all’altro. Il senso come gratuità, bontà, santità e disinteressamento.