Scorrendo le pagine di Madrugada
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Sono stanco ed i miei occhi spenti guardano verso occidente; seduto sotto il colonnato sento sulla guancia destra solo il fruscio delle ombre al tramonto; ma li riconosco i visitatori al passo e dal profumo.
Silvia, piede leggero e profumo di cinnamomo, mi parla di Africa e di Brasile e di bambini che sperano solo di sopravvivere e non sanno cosa farne della nostra morale e ci chiedono per intanto di rispondere al loro diritto primario di vivere e di poi costruire il filo tenue, tenace della speranza.
Carmine, allungando la mano nella ciotola che odora di origano e di noce, riprende la voce di un eretico, il buon samaritano, e sussurra di una responsabilità intesa come risposta alla voce dell’altro che si impone a noi non come eco dei nostri pensieri e sentimenti, ma con la forza della sua presenza.
Larga un’ombra si avvicina, forse di un sombrero messicano, mano che odora di cacao e di ceibe e mi sussurra l’impresa del Chiapas e di Marcos, senza dimenticarsi del Messico antico e dei Maya. Non mi riesce di riconoscerlo; ti chiamerò Diego, come il pittore del tuo murales.
Avanza saltellando, odora di rosmarino e di salvia, la voce si inceppa attorno ad un dubbio, una domanda lo tormenta, di rispondere al questionario del dolore con un formulario; o macerare dentro la risposta e camminare al fianco di chi soffre di scorbuto e d’angoscia. Siediti accanto a me, Stefano, e raccontami del piatto del giorno alla trattoria.
Giuseppe non passerà, mi ha mandato un biglietto: ricorda don Milani, del bisogno di trovare uno strumento che ci sollevi dalla uniformità, e mi rammenta le favole dell’infanzia. E mi scrive pure dei nipotini e del primo giorno di scuola o dell’importanza dell’educazione alla vita, forse.
Lucio Flavio, di passaggio a Roma per un premio, mi lascia per sbaglio un real; l’ho sentito lamentarsi del Giappone, e del grosso affare dell’alluminio, un tempo prodotto in Giappone e ora in Brasile, con un prezzo più vantaggioso di prima, naturalmente per i giapponesi.
Porta un lungo vestito, che solleva una polvere leggera Isabel Aparecida, dalla pelle scura, che raccontava ieri in trattoria la storia di Noni che non deve più fare ore di strada per prendere l’acqua alla fontana; ma non ascolta adesso più le voci della sua sorgente.
Aspetto Egidio, forse con il treno delle nove, ed io non sarò più sotto il portico; quando ascolto le sue pagine provo un senso di invidia, perché sa parlare di cose grandi con freschezza: hai letto la prima parte della Teologia della Liberazione? allora prova la seconda parte.
Mi viene in mente per associazione di idee l’intervista di Eusebi a Lula, leader del partito dei lavoratori in Brasile, che continua a battersi per i poveri, perché la povertà non è una moda, e la felicità non è un privilegio: senza paura di essere felici, suonava uno slogan della sinistra brasiliana.
Il sole è calato ed il cantastorie ha preso il mio posto all’angolo di via Cavour. Non lo ascolta nessuno; e gli altri ridono della sua presunzione di raccontare storie vere. Pasquino sfoglia l’album di foto di Antonello, e non so perché l’hanno messo vicino allo sgabello del merlo accecato.
Ciak! Riprendiamo l’illusione!