La gorgone

di Sbai Zhor

Sbarcò in una mattina nebbiosa. Il porto brulicava, vera Torre di Babele. I suoi passi lo portavano nei dedali di vie sinistre, attaccate alla pelle del tempo. Arrivato in fondo ad una strettoia, suonò al portone di una casa dalla vetustà muta, con una piccola stretta al cuore. Tra la casa e il visitatore non si stabiliva nessun contatto; era un’asse di legno su cui il sole e rare piogge si erano accaniti a vicenda, sciupandola e senza darle quella parvenza di distinzione patinata che acquisiscono certi materiali.

Apparve una grossa donna
Si sentirono arrivare dei passi pesanti e una grossa donna apparve. A parte la bella e lussureggiante capigliatura, niente in lei ricordava la donna che era andato a trovare. Gli occhi, circondati di grasso e ridotti a due fessure che neanche lo sguardo riusciva ad illuminare, lo fissavano senza tradire alcuna emozione. Finalmente le labbra si socchiusero, aprendosi sul vuoto. Un vero naufragio. Quella montagna spugnosa fatta donna, superato lo choc della sorpresa, gli faceva venire voglia di ridere; il riso saliva in lui con un gettito; formava delle spirali chiare che gli afferravano prima le budella, urtandosi, per poi sprizzare fuori; oh, poter ridere, ridere di quella donna, grosso incubo mobile, o meglio, ridere con lei, in perfetta comunione per scacciare il maleficio. La porta restava in aspettativa, come esitando a girare sui suoi cardini, dominata da una mano parsimoniosa e grassoccia. L’ondata di riso che si preparava a nascere si fermò saggiamente in fondo alla gola; forse conviene avere il senso del ridicolo. Si accontentò, dunque, di fissare quella che nella sua testa già chiamava la gorgone.

Come un enorme insetto preso in trappola
Fosse dipeso da lui, la donna poteva restare inchiodata alla soglia come un enorme insetto preso in trappola per l’eternità; non sarebbe stato sicuramente lui a stancarsi per primo. Finalmente il mastodonte si eclissò, lasciando all’uomo la scelta di entrare o di richiudere la porta e tornarsene sui suoi passi. Decise di entrare. Passi perduti nel labirinto dell’ingresso, passi che martellano e fanno gemere il pavimento di legno, stanco fin nelle sue giunture che nessun sole riscaldava mai. La casa si lamentava all’unisono con la sua padrona, dondolava; stava male nella sua pelle. Ancora un piccolo ingresso, una piccola scala, l’inevitabile cucina, dove la fantasia si smussa e il cuore si sgretola, frammenti di tempo che le pareti custodiscono gelosamente. In quella spelonca delle abbuffate, sentiva il cuore della donna, gonfiore enorme, pronto ad esplodere, sull’orlo del baratro ma esitante tra terra e cielo. Fu in una piccola sala attigua alla cucina che la ritrovò, la testa tra le grosse braccia, assente, come abbandonata da quell’arroganza che fa belle le donne. Lei rialzò la testa e si mise a recitare una litania di piccole miserie, puntualizzandole con un dito grassoccio che voleva rabbioso, ma che riusciva solo a fare un “ploc!” lieve sul legno del tavolo. Raccontò a lungo di quel corpo così gracile, così bello, che malignamente un giorno aveva deciso di crescere fuori dai limiti che lei gli ingiungeva, come un fiore mostruoso straripato dal vaso dov’era imprigionato, aggredendo lo spazio in un’ultima rivolta.

Parlava del suo corpo come di un nemico
Parlava del suo corpo come si fa di un nemico furbo e sornione. L’uomo, rimasto in piedi, quasi vacillava sotto l’ondata di odio e di ripugnanza della donna verso se stessa. Aveva la sensazione che fosse trascorsa un’eternità; il suo cervello era in ebollizione, le immagini attraverso cui lei guardava le sue lotte con quella carne che non voleva più sua, assaltavano la sua testa, filavano nelle tele, si fissavano in un secondo, poi cedevano vinte, per fare posto ad altre. Sgocciolavano e se si fosse toccata le dita, sarebbero state sicuramente umide, con tutto quel grasso. La mattinata si allontanava, affogata nella nebbia e nei gemiti, e giungeva la sera: si sentiva così stanco, e la donna che non la smetteva. Per riportarla a sé anche lui parlò della sua stanchezza. Allora lei si alzo pesantemente per accompagnarlo nella sua stanza. Passando scorse la nonna, annodata come un ceppo rinsecchito, mentre si dondolava cretinamente su una seggiola che l’aveva visto vivere; un po’ di fard sulle guance livide, ultima civetteria di un essere passato, era steso lì in un ultimo soprassalto di “si salvi chi può”, facendo il piedino ad una morte latente e sicura. Tutto ciò che restava della sua vita s’era rifugiato negli occhi, di un nero bello e vivo, lo sguardo come un colpo di sciabola, che nasconde in sé tutto ciò che fu quella donna di fuoco e di ghiaccio.

Un colpo di sciabola. Si era spezzato l’ultimo legame
La sua stanza era spaziosa, con piccole pretese di confort. L’uomo si abbatté pesantemente sul letto, sprofondando nel sonno, finché lo svegliò una sete che non riusciva più a soffocare neanche i lembi di questa assenza. Si alzò a stento, e come ubriaco traballò un bel po’, brancolando alla ricerca dell’interruttore, poi lasciò la camera. Perso ogni senso dell’orientamento, si diresse verso il salotto invece che verso la cucina, aprendo la porta come un automa. Il grande salotto era in una penombra che si voleva quieta, ma non lo era. Le luci vacillanti rendevano irreali le sontuose poltrone ed il sofà dove troneggiavano delle bambole, fisse in pose quasi umane, la bocca ermetica e lo sguardo di porcellana che sondava un orizzonte trafiggendo il muro. Disposte in un crescendo agghiacciante, sfoggiavano tutte chiome così belle che gli venne voglia di piangere. La più grassa si alzò, rovesciando la sedia, e col suo dito grassoccio che si voleva imperativo, gli ordinò di partire. Si era spezzato l’ultimo legame con la madre.