I vicini e i lontani
Una cultura di là da venire
La solidarietà obbedisce ad una strana legge. Funziona a meraviglia con i lontani, non funziona con i vicini. L’osservazione è banale, tanto da poter essere messa a verifica ogni giorno, eppure facciamo una gran fatica a trarne le debite conseguenze. Significherebbe infatti far fare alla nostra cosiddetta “cultura della solidarietà” un triplo salto mortale. O forse peggio: bisognerebbe ammettere che una autentica cultura della solidarietà è di là da venire, che abbiamo preso fischi per fiaschi. Che, più o meno consapevolmente, abbiamo tentato di barare. Non sto parlando della società violenta, consumistica, edonista, indifferente, eccetera eccetera (siamo bravissimi a enumerare i grandi mali che affliggono il mondo). Sto parlando di quello spicchio, di quella nutrita minoranza che si picca di non seguire la maggioranza nella sua corsa al successo e al potere. Di quella minoranza che quotidianamente si arrabatta per aiutare il prossimo, raccogliere fondi, lanciare iniziative benefiche. Insomma, sto parlando di noi. Dei buoni, per intenderci. Sì, perché la regola esposta all’inizio vale veramente per tutti. Per la maggioranza silenziosa, come per la minoranza operosa. Ricordate la storiella di quello che va alla riunione, parla di rivoluzione e di un mondo liberato dalla violenza e dalla oppressione, prende un bel po’ di applausi, torna a casa e… sgrida, urla, sbraita e mena la moglie e i figli?
La rivoluzione è lontana
La cosa funziona più o meno così. La rivoluzione è lontana, la moglie ce l’ha tra i piedi tutti i giorni. Il mondo nuovo è una remota prospettiva, i figli sono una fastidiosa e ingombrante presenza. Sì, vabbé, ma non esageriamo! Non generalizziamo! Allora ricominciamo da capo. Come possiamo chiamare “cultura della solidarietà” una cosa che non produce cambiamenti, veri e profondi, nella nostra vita quotidiana, nelle cose che facciamo ogni giorno, nei rapporti con chi ci è vicino, con chi prende il nostro stesso autobus, con chi lavora al nostro fianco, con chi abita nel nostro stesso quartiere? Se la solidarietà fosse diventata cultura, se ci fosse entrata dentro, non solo nelle orecchie e sulla bocca, ci accadrebbe di vedere cose incredibili. Invece, è un sospetto che non ho voglia di tenermi dentro, la solidarietà è soprattutto un “discorso sulla solidarietà”. Un discorso importante? Certo. Tanto importante, e tanto nobile, che se ne fa un uso frequentissimo. È un gesto concreto? Anche. Molte volte un gesto che non ci costa un grande sforzo (una mano sul cuore, l’altra sul portafoglio); a volte, non tanto spesso, un gesto più importante, un sincero interessarsi all’altro, al diverso da noi.
Il raggio si restringe…
la solidarietà diventa più faticosa
Ma questa non è ancora “cultura della solidarietà”. La prova del nove è proprio nella distanza (di sicurezza!?) che interponiamo tra noi (la nostra vita) e la solidarietà. Per il Brasile, il Ruanda, la Bosnia, noi che siamo bravi e buoni, siamo disposti a spendere un soldino, raccogliere medicinali, mobilitare le coscienze altrui. Poi vengono i vicini. Gli zingari del nostro quartiere (“sarà, ma è meglio non fidarsi”), i mendicanti al semaforo (“non sono mica la banca d’Italia!”), le prostitute e i viados (“son figli di Dio, ma devono battere proprio sotto casa mia?”), il vicino di casa in difficoltà (“non siamo neanche parenti!”). Mano a mano che il raggio si restringe, la solidarietà diventa più faticosa. Si scontra con la nostra uggia, fa emergere una serie di distinguo, si stempera, svapora, si volatilizza. Eppure dormiamo tranquilli. Siamo pur sempre quelli che hanno aperto la sottoscrizione per i terremotati del Bangladesh, abbiamo versato la quota per l’affido a distanza, abbiamo optato per l’otto per mille. Ci arrabbiamo, ma in fondo siamo grati a quella maggioranza silenziosa, amorfa, teledipendente, pecorona, seguace del dio ipermercato. Confronto a loro, facciamo una splendida figura (in un mondo di ciechi, l’orbo è re). Noi almeno ci diamo da fare!
La distanza ci salva la distanza ci assolve
Forse una causa della nostra mancata, benché proclamata, cultura della solidarietà è anche nella distanza che continuiamo a mettere tra noi e “il mondo”.
Noi che ci interessiamo, mentre gli altri se ne fregano.
Noi che facciamo, mentre gli altri non ci pensano neppure.
Noi che abbiamo coscienza, mentre la massa vive belluinamente l’homo homini lupus.
La distanza ci salva.
La distanza ci assolve.
Ma esiste solidarietà senza vicinanza?