In Chiapas la parola contro la forza: una sfida aperta

di Comitato di Redazione

Intervista al vescovo dom Samuel Ruiz

Come sono finite le trattative di San Andres? Che cosa ha rappresentato la firma della prima mesa (tavolo delle trattative) e quali sono le prospettive più immediate?
“Per la decisione presa al tavolo della trattative sui diritti della cultura indigena si è raggiunto un primo accordo sul problema della giustizia e della democrazia. Il 5 marzo saranno affrontate le differenti tesi sul tema da trattare, inizieranno una serie di otto incontri, otto gruppi di lavoro, a cui sono stati invitati anche I rappresentanti di ambedue le parti (un numero abbastanza cospicuo ha già accettato l’invito). Saranno organizzati dunque due gruppi di discussione: il primo per dare ulteriori apporti e indicazioni specifiche sul tema da trattare, il secondo gruppo invece avrà il compito di sviluppare e approfondire concretamente il tema. Avrà probabilmente poi luogo un forum nazionale nel quale verranno riportati i contenuti di questi due gruppi di lavoro. Speriamo che questo possa dare un’indicazione di percorso per affrontare poi in altri incontri i temi susseguenti”.

Il governo ha accettato di far uscire tutti i suoi soldati dalla selva?

“Questo problema non è ancora stato discusso e risolto in modo definitivo, faceva parte di un argomento sollevato all’inizio delle trattative che però non ha avuto una conclusione adeguata perché in un primo momento le posizioni erano tra loro molto lontane. Il popolo indios non pretendeva che i soldati uscissero dal Chiapas, ma voleva una presenza dell’esercito solo in alcuni luoghi della selva Lacandona per favorire lo spostamento interno dei gruppi indigeni e delle loro rappresentanze; era comprensibile una presenza dei militari ma si voleva che non fossero a contatto diretto con le comunità e che si fissassero dei luoghi precisi dove era possibile la loro presenza.
Questa discussione è fallita, il governo ha risposto negativamente affermando che le comunità indigene avrebbero dovuto raggrupparsi in tre aree (riserve indigene), il governo avrebbe dato loro ciò di cui avrebbero avuto bisogno e l’esercito sarebbe “stato attento” e sarebbe stato vicino a questi tre luoghi. I rappresentanti del popolo indigeno hanno risposto (non senza ironia) che così loro fanno normalmente con i maiali, li rinchiudono in tre recinti e danno loro da mangiare lasciando solo un’unica possibilità di uscita, “per andare altrove”. Questa soluzione non è stata dunque seriamente presa in considerazione.
“C’è stata poi la proposta di lasciare libere cinque strade all’interno della selva, normalmente presidiate dall’esercito, che sarebbero state controllate solo alle estremità e libere nel mezzo così il popolo avrebbe potuto transitare. La risposta del governo è stata negativa, il governo diceva: “o accettate le nostre proposte o non se ne fa niente….”, e l’esercito zapatista rispondeva: “dialogo non significa sottomissione, noi facciamo una controproposta per arrivare ad una conclusione accettabile per entrambi”. Ma il governo non ha accettato e così si è lasciato il problema della militarizzazione dei territori del Chiapas da discutere alla fine di tutto il processo di pace. Può darsi che dopo aver affrontato il tema della giustizia… si insista sulla possibilità di ridurre la presenza dell’esercito in quei territori perché il 70% dell’esercito messicano è qui in Chiapas… il 70%! Si dice che questo dato non sia importante ma in realtà la presenza dei militari è tremenda”.

Quali sono stati i risultati concreti di questa prima mesa?
“In questa prima mesa si è definito in accordo un documento organizzato in tre punti: il primo relativo alla situazione del Chiapas, il secondo alla situazione del Chiapas e la sua ripercussione nell’intero paese, e l’ultimo anticipa il problema della costituzione. Si tratta di un unico documento con tre dimensioni: la dimensione strettamente locale, la dimensione locale ma con ripercussione nazionale e poi i problemi specificatamente nazionali. Questo documento è andato nelle mani di ambedue le controparti per una ventina di giorni durante i quali hanno avuto luogo le consultazioni interne. Così facendo si puntava ad ottenere una maggiore chiarificazione delle rispettive posizioni attraverso una reciproca accettazione di quanto definito, o apportando al documento di base le modifiche indicate dal governo e dalla realtà indigena. Come avevamo previsto, con piccole modifiche, si è arrivati alla firma e quanto deciso dovrà essere ora valutato a livello nazionale per far rispettare i nuovi accordi.
“Il 5 marzo con l’attivazione di una Commissione per la Verifica degli Accordi si ricominceranno definitivamente gli incontri, i gruppi di lavoro si attiveranno dal 20 marzo prossimo”.

Quale la conseguenza di questa approvazione?
“Certamente si può vedere che gli indios e il governo parlano al tavolo delle trattative in una situazione meno asimmetrica, di svantaggio, perché gli indios hanno un appoggio molto chiaro da parte della popolazione ed un controllo costante degli osservatori nazionali e internazionali. Così hanno potuto parlare senza la discriminazione razziale cui erano stati sottoposti e che si era percepita nei momenti precedenti. Questo ha fatto si che ora gli indios siano veramente considerati come veri soggetti della propria storia, con un ascolto nazionale ed internazionale.
“In secondo luogo, man mano che questo tavolo delle trattative sta cominciando a dare i suoi frutti si allontana (c’è ancora, ma si sta allontanando) la possibilità di una soluzione di forza e non di dialogo. La dinamica di violenza recede, anche se non è certo che non si possa tornare alle tensioni passate pur meno probabili adesso. Man mano che si avanza tutti quanti hanno la convinzione che solo la via del dialogo e della conciliazione possano davvero essere l’unica strada possibile per avere la pace. E anche la partecipazione che la società civile ha avuto sia attraverso le commissioni sia come pubblica opinione fanno più sicura la possibilità che il processo di pace diventi più forte perché non sono necessari solo il dialogo o gli accordi scritti su carta, è necessaria la sensibilizzazione della società civile che partecipa a questo processo ed è questo che sta progressivamente avvenendo. Queste sono, secondo me, le conseguenze più dirette ed immediate di questa trattativa in atto”.

Esiste il pericolo di un processo di isolamento dell’area indigena, per esempio attraverso i controlli sull’immigrazione e sui prodotti che possono uscire senza la possibilità di una commercializzazione diretta? Non è un tentativo accerchiamento di questa zona che rischia di rimanere isolata?
“Il controllo della gente straniera, che può essere testimone diretta del divario che spesso esiste tra quello che si dice e quello che si fa, non mette in pericolo per esempio l’esportazione dei prodotti indigeni prima di tutto perché l’economia di quest’area tende prevalentemente all’autosufficienza; soltanto nel caffè, o pochi altri prodotti, esiste una certa eccedenza e dunque una esportazione che non è impedita. L’esercito ha cercato di isolare il movimento zapatista non la sua povera produzione.
“La politica del passato tendeva a far arrivare degli osservatori schierati con il regime attuale, questo potrebbe ancora succedere, anche se ormai è chiaro a tutti che l’apertura internazionale ad “ambasciatori”, per esempio europei, rende più improbabile un isolamento di questo tipo. C’è piuttosto la minaccia contraria che può corrompere le comunità e il rischio di dipendere solamente da vecchi modelli di società capitalista senza forti correzioni”.

Un governatore in Chiapas
“Qualche anno fa era presente in Chiapas un governatore che ha fatto un lavoro abbastanza interessante invitando tutte le segreterie dello stato messicano ad incontrare le comunità indigene. Queste segreterie hanno sviluppato una grande quantità di interessanti progetti di finanziamento delle comunità. Porto l’esempio di uno che riguardava il miglioramento delle abitazioni degli indigeni che ha però ottenuto la seguente ripartizione dei contributi: 40% è rimasto nelle mani della direzione generale del progetto, il 30% è rimasto agli agenti diretti del governo che lavoravano nelle comunità, il 10% è stato il ricavato del commercio attivato nella città per la vendita dei materiali e soltanto un 10% è arrivato alla comunità vera e propria che con il suo lavoro ha invece contribuito in maniera preponderante. Dunque il popolo indigeno si è fatto carico del 90% del lavoro del progetto per ottenere poi il 10% dei contributi e questo non è da ritenersi la conseguenza di una cattiva amministrazione ma è la maniera ordinaria di gestire i finanziamenti destinati agli indigeni. Si può verificare questo in tutti i progetti e le iniziative “a favore” del popolo indigeno. Dovrà essere impegno di tutti evitare la ripetizione di queste modalità per evitare il prolungarsi di tensioni e violenze e dovrà essere reimpostato il modo di finanziare i progetti dando agli indios la possibilità di gestire in proprio le loro iniziative”.

E la questione della terra?
“La terra deve avere una considerazione differente da quella che normalmente le si dà nel mondo occidentale. Per gli indios la terra non è soltanto uno strumento di lavoro, un mezzo per garantirsi la sussistenza ma è una situazione di identificazione profonda. C’è un rapporto forte con la natura, non è solo una possibilità di produzione ma fa parte della loro identità, è la loro madre. Questa terra che è ora loro e che lavorano per vivere non è sufficiente per garantire a tutti la possibilità di sopravvivenza. Neanche strappando dalle mani di coloro che posseggono quella terra in modo illegale, né recuperando quella parte che non è ancora adatta alla coltivazione si potrà garantire la sopravvivenza a tutti i gruppi familiari.
“Si tramanda ancora nella storia recente del Messico che la nostra patria è stata distribuita tre volte alla popolazione, parte della terra è stata data per almeno tre volte alla gente”.

Nessuna soluzione individuale
“Quando all’inizio delle trattative qui, a San Cristóbal, Manuel Camacho, rappresentante del governo per il dialogo, ha chiesto agli indios cosa pensassero della terra hanno risposto semplicemente e chiaramente: non c’è una soluzione possibile se pensiamo soltanto in un’ottica di risposta individuale e non collettiva.
“Bisogna ripensare a ciò che si coltiva qui in Chiapas per valutare altre possibilità oltre ad una necessaria nuova relazione tra terra e industria cosicché l’agro-industria possa essere un aiuto sostanziale per la sopravvivenza degli indigeni e al fine di raggiungere una produzione accettabile. Ci sono anche risorse naturali che finora non sono state sfruttate adeguatamente.
“Un’altra realtà importante è il rapporto tra terra e identità indigena che si potrà realizzare solo con la creazione di regioni specificatamente indigene che tengano conto della nuova realtà che si è venuta sviluppando nella foresta. Qui ora non ci sono più zone dove sopravvivono singole etnie incontaminate ma la convivenza avviene tra etnie diverse e meticci; pertanto una soluzione potrebbe essere quella di creare delle municipalità indigene con l’inclusione di questi “altri”, la maggioranza indigena presente definirà la propria legge e usanza e darà espressione alla propria identità e ai propri valori. Questo non è certamente facile perché il governo non ha voluto accettare l’espressione territoriale ma ha lasciato una piccola porta aperta cosicché si possa arrivare ad una soluzione mediante una decisione delle municipalità che si possono aggregare per raggiungere finalmente una definizione della regione indigena.
“Quello che gli zapatisti vogliono espressamente evitare è che si consideri di nuovo questa regione non appartenente al paese ma separata da quest’ultimo come si è avuto tempo fa una esperienza di separazione, segregazione, anche se transitoria, di una parte del territorio; non si vuole correre il rischio che l’espressione di “regione indigena” diventi sinonimo di isolamento e segregazione”.

San Cristóbal de las Casas,
Chiapas – Messico,
15 febbraio 1996.
Il gruppo di Macondo era composto
da Marco Crimi, Carmelo Miola,
Antonio Stivanello, Giuseppe Stoppiglia
e Giampaolo Zulian

Trascrizione della registrazione a cura di
Paola Lega, Monica Lazzaretto e Giampaolo Zulian