La seconda rivoluzione cubana

di Di Felice Massimo

Ritardi
Intervenuto lo scorso anno in occasione delle celebrazioni per l’avvenuta elezione di Nelson Mandela alla guida del Sudafrica, il presidente cubano Fidel Castro monopolizzò l’attenzione dei numerosissimi giornalisti e degli intervenuti i quali, incuriositi dalla sua presenza, subito dopo la cerimonia di insediamento lo circondarono provocando una tale ressa che gli impedì di percorrere in breve tempo il tragitto necessario a raggiungere la sala dei festeggiamenti causando il ritardo dell’inizio del pranzo ufficiale e prolungando per quasi due ore l’attesa dei più di cento capi di Stato riuniti per l’occasione. Allo stesso modo nell’ultimo vertice sull’ambiente e lo sviluppo tenutosi a Copenaghen era stato il leader cubano a carpire l’attenzione dei media, questa volta per la scelta di indossare un rigoroso doppio petto scuro invece della solita divisa verde olivo, e per aver riscosso per il suo breve ma incisivo intervento l’applauso più lungo dell’assemblea.

Senza cena
Ben diversa doveva essere, secondo le previsioni, l’accoglienza riservata a Castro negli Stati Uniti in occasione dei festeggiamenti per il cinquantenario delle Nazioni Unite che ha visto riuniti a New York circa centocinquanta capi di Stato provenienti da ogni angolo del pianeta, con le uniche brillanti assenze del presidente tedesco Kohl e del nostro Oscar Luigi Scalfaro. Ostracizzato da Clinton e dal sindaco Giuliani che gli hanno rifiutato l’invito nella cena di ricevimento data per le autorità convenute, unico escluso Castro non si è comunque perso d’animo riuscendo di nuovo a concentrare su di se l’attenzione dei mass-media internazionali che anche questa volta hanno preferito dedicargli le prime pagine e la maggiore parte degli scoop. Nel suo brevissimo discorso il leader cubano ha sottolineato il non adempimento dei principi della carta costitutiva delle Nazioni Unite e l’inasprimento dei conflitti internazionali dovuti all’incremento del divario tra la minoranza ricca della popolazione mondiale e la maggioranza povera. Il discorso si concludeva con un appello che chiedeva un mondo “senza egemonie, senza armi nucleari, senza interventismo, senza razzismo, senza odi nazionali né religiosi, oltraggi alla sovranità di alcun paese, con riguardo alla libera indipendenza ed alla libera determinazione dei popoli, senza modelli universali che non considerano affatto le tradizioni e la cultura di tutti i componenti dell’umanità, senza embarghi crudeli che uccidono uomini, donne e bambini, giovani e anziani, come bombe atomiche silenziose…”.

A passeggio
Escluso dalle serate mondane e dalle cene ufficiali Castro aveva percorso le vie di Haarlem, riscuotendo come trentacinque anni fa, un grande successo nella comunità negra e pronunciando un discorso nella First Abyssinian Church nel quale aveva esordito dicendo “Ed eccomi qua, trentacinque anni dopo, tale e quale come allora, ancora un escluso, ancora un isolato, ancora il pericolo pubblico numero uno. Vi pare possibile?”. Successivamente, segno dei tempi, era stato ospite alla CNN davanti al conduttore Bernard Shaw e prima di lasciare gli Stati Uniti aveva fatto colazione con David Rockefeller e altri famosi businessmen in un clima da tutti definito amichevole e simpatico. Gli esperti di comunicazione hanno attribuito il successo d’immagine ottenuto dal presidente cubano, ovunque nel mondo accompagnato da folle di giornalisti e da gruppi di manifestanti (sostenitori e oppositori) che colorano il suo passaggio, alla sua capacità di essere vivo; come avvenuto recentemente a New York, a differenza degli altri leaders, invece di lasciarsi imbalsamare nella fotografia dei centocinquanta presidenti, non identificabili, si è mosso freneticamente nella città attirando curiosi e rilasciando dichiarazioni fuori, per forma e contenuto, dal linguaggio diplomatico convenzionale. Tale capacità comunicativa, attribuita da alcuni anche alla sua figura anacronistica e contraddittoria che lo vede da un lato come l’ultimo dei tiranni lasciato dalla guerra fredda e dall’altro come il portatore dei diritti dei popoli oppressi, gli ha portato ultimamente non poche vittorie diplomatiche. La sua eterna lotta contro il blocco economico imposta a Cuba dagli Stati Uniti ha trovato recentemente illustri alleati, oltre all’ennesima condanna, quasi all’unanimità, dell’Assemblea delle Nazioni Unite anche Giovanni Paolo II, la conferenza episcopale cubana e la Comunità Economica Europea si sono esplicitamente pronunciati in disaccordo con la politica attuata dagli Stati Uniti contro il popolo cubano. Dal loro canto gli Stati Uniti, dopo l’inasprimento del blocco attuato dall’emendamento Torricelli, stanno proponendo un ulteriore giro di vite che viene dalla proposta di Helms-Burton di estendere ulteriormente le sanzioni ai paesi terzi che commerciano con l’isola.

Oltre le cronache mondane
Ma più che nelle relazioni Cuba-USA che riportano le cronache geo-politiche all’era della guerra fredda, è possibile scorgere il passaggio della storia nei cambiamenti in corso all’interno dell’isola che hanno apportato delle strutturali modifiche all’economia e all’organizzazione sociale tanto da spingere gli stessi politici cubani, i più attenti osservatori, e lo stesso Castro a parlare di una nuova rivoluzione. In seguito al mutato contesto internazionale le relazioni commerciali sono passate, in breve tempo, dagli ottomila milioni di dollari di importazioni del 1989 ai duemila milioni del 1991-92 situazione che ha causato una conseguente caduta della produzione per la mancanza di materie prime e di ricambi necessari al normale funzionamento del ciclo produttivo. Dinanzi a tale situazione, il piccolo paese ha dovuto ricostruire tutto il sistema dei rapporti economici con l’estero iniziando un profondo processo di trasformazione che ha attraversato tutta la società e che si poneva come obiettivi principali quello di affrontare la crisi e la conservazione delle conquiste sociali raggiunte dalla rivoluzione. Citeremo di seguito, sia pur in modo estremamente sintetico, le tappe principali di tale mutamento.

Rapporto pubblico-privato
In primo luogo il riorientamento geografico ed economico dell’economia ha comportato la ricerca di nuovi soci commerciali e la ricerca di nuovi prodotti, determinando la rottura del monopolio dello stato sul commercio estero e la apertura al capitale straniero, con il difficile obiettivo di giungere ad acquisire nuove tecnologie, nuovi capitali e nuovi mercati. Ciò ha inoltre portato inevitabilmente alla de-centralizzazione economica e alla allargamento delle forme di proprietà, imponendo la comparsa, oltre a quella statale e cooperativa, di quella privata e di quella mista. A partire dall’estate del 1992, con la modifica della costituzione, si sono iniziate una serie di strutturali trasformazioni a cominciare dalla legalizzazione della proprietà privata e con essa dell’impresa mista (quando conveniente allo stato) che ha dato il via all’entrata del capitale straniero nel paese regolamentata da una serie di condizioni. In linea generale gli investimenti esteri vengono utilizzati per rimettere in funzione macchinari, imprese e hotel che erano completamente paralizzati e attualmente non superano i duemila e cento milioni di dollari. Un altra misura importante di cambiamento presa nel 1993 è stata la legalizzazione della circolazione dei dollari all’interno del paese. Esistono oggi nell’isola di fatto tre monete, il pesos, il pesos convertibile e il dollaro. Le imprese straniere operano in dollari e pagano pertanto imposte in dollari e non possono assumere direttamente ma soltanto ricorrendo ad una agenzia statale per l’impiego che organizza e gestisce la manodopera, questa ultima viene pagata in moneta locale ed è legata alla legislazione vigente nel paese in materia di lavoro. Particolarmente importante, anche se non costituisce una vera e propria novità in quanto vi erano già state esperienze analoghe soprattutto all’interno del mondo contadino, è stata la legalizzazione del lavoro individuale avutasi nel settembre 1993 che ha portato al riconoscimento di più di 150 categorie di lavoratori autonomi riconosciuti. Ma una delle trasformazioni più grandi è senza dubbio quella avvenuta nell’agricoltura sempre nel 1993; le grandi imprese statali (Granjas) sono state smembrate e trasformate in cooperative autonoma e autogestite, ossia in imprese cooperative autofinanziate; oltre il 60% delle terre coltivabili del paese è attualmente dato in uso frutto a tempo illimitato alle cooperative che pagano regolarmente imposte al governo e che pongono fine al lungo ciclo di passività nel quale erano finite le imprese statali, dopo la caduta del COMECON, per la mancanza di ricambi e di tecnologie necessarie alla produzione.

Rilancio economico
L’impatto economico di tali riforme appare anche esso, come quello sociale, contraddittorio. A partire dal 1994 dopo anni di caduta l’economia ha avuta una ripresa dello 0.7%, ma già dai primi nove mesi del 1995 il Prodotto nazionale è cresciuto del 2.4% accompagnato da una serie di incrementi di produzione, rispettivamente il nichel 80% in più, il petrolio il 12% in più, la pesca il 14% e gli ortaggi il 24% di incremento rispetto l’anno precedente. Complessivamente, sostengono fonti governative, nonostante l’inasprimento del blocco economico, nel 1995 l’economia cubana è cresciuta del 7% ma, d’altro canto le riforme hanno portato allo scoperto la mano d’opera in eccesso generando nuovi disoccupati che, in attesa di nuovo inserimento, ricevono un sussidio che si aggira intorno al 70% del loro salario. I tassi di disoccupazione sono di gran lunga inferiori a quelli europei, ma secondo gli esperti sono inevitabilmente destinati ad aumentare. In altri termini i meccanismi innescati dalla trasformazione economica generano una serie di problematiche di difficile interpretazione in quanto vengono ad innescarsi in un contesto sociale in trasformazione, da sempre politicizzato e motivato alla produzione per il benessere del paese, che sarà difficile da gestire. Sintetizzando ciò che è avvenuto a Cuba negli ultimi due anni è stato il passaggio da una economia pianificata ad un nuovo modello di economia decentralizzata che i cubani chiamano, rifacendosi ai modelli cinese e vietnamita, economia di mercato regolato. “Dobbiamo essere flessibili e resistenti come il bambù”, dicono i cubani.

La sfida è aperta
In una recente intervista, apparsa su Le monde diplomatique, Julio Carranza e Pedro Monreal, due importanti economisti cubani hanno dichiarato: “Siamo giunti a due conclusioni, le esperienze di socialismo realizzato finora non aiutano a risolvere i problemi di Cuba. Ma neanche i sistemi in vigore in America Latina. Allora, ci siamo detti, bisogna inventare qualcosa di nuovo… “Lo stato deve essere capace di controllare i meccanismi fondamentali dell’economia, in particolare alcuni ingranaggi essenziali; deve restare proprietario di una parte dei mezzi di produzione, pur condividendo a volte la proprietà con soci stranieri o privati del luogo. Deve mantenere la capacità di regolare l’economia nel suo insieme… Secondo, deve essere in grado di finanziare la spesa sociale…Un sistema di istruzione per tutta la popolazione e un sistema sanitario che protegga i cittadini più poveri o quelli che sono temporaneamente in disoccupazione. Terzo deve sempre avere i mezzi per difendere gli interessi nazionali contro il capitale straniero… “Non sappiamo se ce la faremo, è una sfida ancora aperta”.