Menti nomadi Le attività formative del Centro studi “L’Emilio”

di Montevecchi Silvia

Da alcuni mesi è nato, con sede a Bologna, il Centro studi L’Emilio, che si sta costituendo come associazione senza fini di lucro, con obiettivi (…o potremmo dire “ambizioni”) formativi nell’ambito del dialogo tra culture. Certo questa non è di per sé un’attività innovativa, ed anzi esistono già molte associazioni e Ong di cooperazione che svolgono percorsi formativi in questo ambito. Il Centro si caratterizza per essere peculiarmente un’agenzia di formazione in due settori fondamentali: quello pedagogico e quello antropologico (…con tutti gli annessi e i connessi, tematici e metodologici), e per svolgere questa formazione a più livelli, in Italia e “sul campo” mediante viaggi-studio all’estero. Vediamo dunque in sintesi i vari ambiti di lavoro.

Attività esterna

Il Centro è composto da più persone, esperti in tematiche e metodologie diversi, che da molti anni operano nel settore dell’educazione alla nonviolenza, alla legalità, ai consumi, alla lotta al razzismo. Offre pertanto percorsi formativi agli enti interessati che ne fanno richiesta: scuole dell’obbligo, corsi di specializzazione per adulti, per esempio nell’ambito dei servizi ai migranti, ecc. Inoltre collabora alla realizzazione di progetti specifici come mostre, materiali didattici multimediali, ecc. I collaboratori del Centro sono educatori, pedagogisti, animatori, docenti universitari, alcuni dei quali hanno al loro attivo anche varie pubblicazioni, per bambini e per adulti, su questi argomenti.

Attività interna:
corsi residenziali

Oltre a queste attività che possono inserirsi in percorsi formativi altrui, il Centro organizza propri corsi e seminari, sempre a carattere pedagogico/antropologico. Per esempio per la primavera ’96 sono in programma un seminario sulla “Musica del villaggio globale”, con esperti di musica etnica, ed uno sul dialogo interreligioso ed i fenomeni di sincretismo, con due docenti universitari esperti in particolare, rispettivamente, di Sudamerica e di Oriente. Durante l’estate invece si prevedono corsi residenziali di una settimana, in un luogo piacevole dell’Appennino bolognese, in cui poter passare alcuni giorni facendo anche vita comunitaria, camminate nei boschi, escursioni ai parchi e alle zone storiche circostanti. I corsi in programma sono tre, nel mese di luglio, e sono aperti a tutti: operatori dell’associazionismo, educatori, obiettori di coscienza, chi lavora per i servizi ai migranti, chi è studioso di antropologia, o impegnato nella solidarietà internazionale e nella difesa dei diritti umani ecc. In sintesi gli argomenti dei tre corsi. Primo: “Educazione alla pace e all’intercultura” che tratterà in particolare i giochi di cooperazione e l’educazione al conflitto; secondo: “Culture a rischio”, con l’antropologo Duccio Canestrini, collaboratore di Airone e autore di vari libri e reportages. Durante questo corso si prevede anche uno stage su danza e ritmi afro con Luciana Canestrini Terzo: “Mente e natura”, con l’antropologa americana Mary Catherine Bateson, figlia degli entrambi famosi Margaret Mead e Gregory Bateson, e autrice di vari libri pubblicati in Italia da Adelphi e Feltrinelli.

Settore viaggi:
autoselezione

Il terzo settore in cui si vede impegnato il L’Emilio è quello della formazione “sul campo”, ovvero dei viaggi studio all’estero. Questa attività viene svolta in collaborazione con una regolare agenzia di viaggi, che garantisce tutta l’assistenza tecnica (hotel, trasporti, assicurazioni, ecc.), mentre il Centro si occupa esclusivamente dell’organizzazione culturale, dunque delle visite sul campo, gli incontri tematici, il conduttore-esperto, le traduzioni. Non si tratta dunque di viaggi turistici, ma di percorsi che sperano di essere davvero formativi sul piano non solo della conoscenza bensì dello scambio, del rapporto tra culture e tra persone. In ciascuno dei paesi visitati si cerca quindi di uscire dai circuiti di maggiore turismo, di evitare gli alberghi più centrali e d’élite, per frequentare i luoghi in cui sia più possibile stare con la gente. In alcuni casi si alloggia presso centri di formazione o villaggi. I conduttori dei gruppi sono esperti della tematica del viaggio, del paese, a volte sono di provenienza del paese stesso. In taluni casi sono docenti universitari. Ai partecipanti si richiede evidentemente, e soprattutto, di “autoselezionarsi”. Questo non è certo un tipo di viaggio adatto a tutti. Comporta la disponibilità a fare vita comunitaria, ad avere spazi di autogestione, a non aspettarsi l’aria condizionata in camera, a non stupirsi davanti alla scarsità d’acqua nei rubinetti, o a qualunque altro tipo di imprevisto. Inoltre, si chiede ai partecipanti di partire con uno spirito di profondo e reale rispetto verso il paese che ci ospita, in particolare per quanto riguarda l’uso della macchina fotografica, l’utilizzo dei mezzi di trasporto locali, ecc.. Tutte cose apparentemente banali ma che poi spesso, al contrario, generano non pochi malintesi . Questi viaggi-studio dunque sono aperti a tutti, perché non è possibile selezionare più di tanto l’ingresso, ma si auspica davvero che chi necessita di un vacanza o di un viaggio diverso, si rivolga ad un altro tipo di organizzazione. Naturalmente anche nei viaggi dell’Emilio vi sono momenti di relax, mare e visite ai luoghi più importanti sia sotto il profilo storico che naturalistico. Per il 1996 sono in programma: Albania, Inghilterra, Irlanda, Marocco, Egitto, Senegal, Brasile, India, Indonesia, Birmania. Inoltre visite guidate in Italia, tra le minoranze etniche del nostro paese, e visite ad alcuni splendidi musei antropologici d’Europa.

Menti aperte
al dialogo e… al caos

Generalmente molti si chiedono il significato sia del nome “Emilio”, sia del sottotitolo “Corsi e incontri per menti nomadi”. Emilio viene dal libro di Rousseau, pietra miliare della pedagogia moderna e contemporanea, e vuole essere anche un omaggio all’autore, che tanto dibattito portò al tema del “rapporto con l’altro”. Menti nomadi sono quelle che L’Emilio spera di aiutare a coltivare. Menti aperte al dialogo, al cambiamento, al percorso. Menti che non si fermano davanti alle proprie acquisite, indiscutibili certezze, ma al contrario sono aperte a discuterle, a metterle/mettersi in gioco, accettando l’incertezza, il rischio, anche il caos. Quando si parte per un viaggio, lo dice anche il proverbio, non si sa quello che si trova. E pur tuttavia il bello sta proprio lì. In questo mistero che ci consente l’esplorazione, la scoperta, l’avventura. Il tuffarsi in ciò che è sconosciuto per conoscerlo, incontrarlo, e poi ritrovarsi diversi, cambiati, cresciuti, arricchiti.
Tutto questo, crediamo, è necessariamente alla base del rapporto con l’altro, con la diversità. Se non si possiede una disponibilità al dialogo, al confronto, che implicano a loro volta la disponibilità all’ascolto e al silenzio, se non si è disponibili a lasciare il noto per l’ignoto, difficilmente si può avere davvero l’incontro. La mente nomade non si riferisce dunque certo al viaggio all’estero! È senz’altro vero che la mente aperta non sempre corrisponde al grande viaggiatore, e viceversa.

Se l’incontro è scontro…
Senegal, per esempio

Quando si va varie volte in un posto, per alcuni anni, e si rivedono le strade, le facce note, si risentono gli stessi sapori, i suoni, gli odori, ci si ritrova poi inconsapevolmente legati a quel posto, si comincia a sentire di avere lì un pezzettino di radici, nel cuore di quelle persone che quando arrivi ti aspettano, con i loro sorrisi, la loro socievolezza. Dunque per me parlare del Senegal è parlare di un posto dove comincio a sentirmi “a casa”… ed è proprio bello! È bello sentire che un posto non ti è estraneo, non lo hai semplicemente visitato, ma ne provi nostalgia, perché ormai fa parte di te, della tua storia di vita.
Concessami questa digressione affettiva, che dire? Potremmo cominciare dicendo che il Senegal è senz’altro un paese molto bello, oppure che è molto difficile. Dipende dai vissuti, ma entrambe le affermazioni sono vere. Più volte ho sentito dire dalla gente che lo ha visitato di esserne rimasta traumatizzata. A volte il trauma si supera in positivo, a volte no.

Dakar,
grande metropoli caotica

Dakar è una grande metropoli, caotica. Probabilmente molti europei che arrivano qui per la prima volta (e magari è la prima volta che vanno in Africa), si aspettano cose diverse. Lo ammetto, è stato così anche per me. Io ero stata in altri paesi africani e altre zone povere del mondo. Sicuramente quando si arriva in Senegal la cosa che colpisce è il comportamento dei senegalesi, che non ci si aspetta. Loro, particolarmente nel centro di Dakar ma in tutto il paese, girano per le strade con la loro merce da vendere, ed è difficile camminare tranquillamente senza che qualcuno ti “assalga” proponendoti bei vestiti colorati, strumenti musicali, maschere e altri diversissimi oggetti d’artigianato. Naturalmente ci sono anche i bambini che chiedono l’elemosina.

Al mercato
ti toccano, ti tirano

Nei mercati poi è pressoché impossibile “fare un giro per vedere cosa c’è”, chiedere i prezzi e poi decidere se comprare o meno. Se solo metti lo sguardo su un oggetto, te lo ritrovi già in tasca, e non è possibile sapere quanto costa: devi dire tu quanto vuoi pagarlo. Insomma, non possiamo nasconderlo: l’impatto non è subito piacevole. Anch’io la prima volta ne fui piuttosto colpita perché in nessun paese povero, in nessun mercato avevo mai trovato tanta insistenza, e poi così fisica: loro ti toccano, ti tirano per farti vedere i loro oggetti. Non si rendono conto che spesso ottengono il risultato opposto, perché ti fanno passare la voglia di comprare, se per caso l’avevi. Magari si preferisce fare acquisti nei negozi un po’ più costosi, dove però si può entrare con calma, anziché nei mercati.
Dicevamo: un paese molto bello, un paese difficile. Ho cominciato col “difficile”. Già, perché non mi interessa fare l’apologia di un paese o di una cultura. Come dicevamo sopra, il dialogo è fatto di cambiamento. L’accettazione e il rapporto con l’altro non significa idealizzarlo. Significa anche, per esempio, capire che si era partiti con delle aspettative sbagliate.

Amo gli spazi infiniti…
gli splendidi aironi

Il Senegal ha una natura stupenda. Io amo i grandi spazi infiniti, le savane, i grandi tronchi dei baobab e gli alti cappelli delle acacie. In diverse zone costiere del Senegal, nel Sine Saloun, in Casamance, ci sono i caratteristici “bolon”, braccia di acqua salata che entrano nella terra tra distese di mangrovie, dove senti solo i suoni della natura e di attività produttive che diremmo “in armonia”. Mangrovie da cui puoi staccare radici coperte di ostriche, e su cui volano splendidi aironi, pellicani e tanti altri. La Casamance ti offre la sua vegetazione inebriante, con quegli alberi giganteschi, i fromager . E poi in Senegal si mangiano piatti fantastici di riso e pesce, c’è il suono dolce e profondo della kora, e i ritmi coinvolgenti di tanti musicisti, che senti quasi ad ogni strada, dagli stereo messi fuori dalle botteghe a tutto volume. Ci sono splendide donne con coloratissimi vestiti, alte, eleganti, intraprendenti. Spesso sono loro le maggiori fautrici dello sviluppo di interi villaggi. Manca, in Senegal, la grande fauna che generalmente alimenta il mito dell’Africa nera: leoni, ghepardi, elefanti, rinoceronti, qui hanno da tempo lasciato lo spazio a facoceri e ungulati vari.

Superare le impressioni
e cercare di comprendere

Più di questo non si può descrivere, bisogna andarci, provare, tuffarsi. E possibilmente cercare di superare le impressioni sfavorevoli. Queste vanno messe in conto sempre. Dovunque ci possono essere. Ma il cambiamento sta (almeno) nel tentativo di cercare di comprendere. E allora piano piano ci si abitua a modalità diverse di rapportarsi, e si capisce che proprio grazie a quelle modalità in Senegal è praticamente impossibile non fare subito conoscenza con qualcuno.
Dovunque ti metti, puoi trovare qualcuno con cui parlare, e poi ritrovarti a casa di una famiglia che magari passa una giornata a farti le treccine tra i capelli, o tra gente che suona le percussioni e danza per strada, o a una festa di quartiere dove rimani fino all’alba. E così, poco alla volta, ti fai degli amici, e quell’esperienza ti entra sotto la pelle, fino al cuore. E magari, se ci torni, ti senti un po’ a casa.

La pedagogia partecipativa,
la promozione dell’autosviluppo

Il viaggio-studio organizzato in Senegal da L’Emilio verte su questi temi, e si svolge in collaborazione con una Ong internazionale che ha sede a Dakar, che lavora in molti settori dello sviluppo tra cui quello educativo/formativo. Si occupa di diverse categorie sociali: le organizzazioni delle donne, dei contadini, ma in particolare dei bambini e delle bambine lavoratori. Questo è il settore di maggiore impegno, da più anni, in cui si sono avuti quindi i successi più rilevanti.
Per parlare della pedagogia partecipativa e in particolare delle attività a favore dei bambini lavoratori, occorrerebbe un altro abbondante spazio.
Ci fermiamo solo a sottolineare l’importanza di una strategia educativa in cui il fruitore, o “l’utente”, del servizio sia un po’ “il pedagogista di se stesso”. Nel senso che queste forme di educazione partecipata ci riportano ad una prassi da “programmazione collettiva” un po’ alla don Milani, e ci riportano anche alla descolarizzazione alla Illich, alla pedagogia popolare alla Tolstoj, alla pedagogia degli oppressi di Freire.
Una prassi in cui nessuna ricetta viene data in sé, ma ognuno è aiutato a trovare, ad analizzare i propri bisogni, per trovare le proprie soluzioni. Una prassi informale, fuori dalle istituzioni non tanto per scelta ma perché le istituzioni non ci sono. Non ci sono le scuole, con i muri, i banchi, gli alunni, gli orari, i Programmi, i libri, i quaderni, gli insegnanti. Non c’è nessuna di queste cose. O almeno non a sufficienza.

Attività pedagogica informale

Si ritrova dunque una prassi pedagogica dell’informale, in cui non ci sono orari, ma si lavora a qualunque ora, di qualunque giorno, per strada, nei mercati, in qualunque luogo in cui i bambini lavorano. E con loro si stabiliscono le necessità, le priorità . E l’educatore è un po’ amico, un po’ assistente sociale, un po’ sindacalista. Certamente complice. Un complice seduttore. Sì, perché è lui che deve stimolare continuamente i ragazzi a seguire un percorso. Non c’è la “frequenza obbligatoria”. I bambini, lavorano perché ne hanno bisogno, e vogliono continuare a farlo. Chiedono solo un po’ di rispetto. Di essere considerati come i lavoratori adulti, che anche nell’economia informale portano un alto contributo allo sviluppo del paese, anche se per i benpensanti è difficile ammetterlo.
Il viaggio in Senegal è volto dunque a prendere contatto con questa prassi educativa, visitando dei progetti e delle iniziative locali (moltissime mandate avanti con tanto lavoro di volontariato), incontrando gli educatori e i fruitori dei diversi servizi, con una profonda convinzione: l’importanza di imparare dalla pedagogia del sud. Per tanti di quei valori che il nord, anche in ambito educativo, ha perso, e che dovrebbe un po’ rispolverare.