Islam, la fede e le opere
“Un giorno, mentre eravamo seduti accanto al Messaggero di Dio (su di lui la pace e la benedizione di Dio), ecco apparirci un uomo dagli abiti candidi e dai capelli di un nero intenso: su di lui non traspariva traccia di viaggio, ma nessono di noi lo conosceva. Si sedette di fronte al Profeta (su di lui la pace e la benedizione di Dio), mise le ginocchia contro le sue e poggiando le palme delle mani sulle sue cosce gli disse: “O Muhammad, dimmi cos’è l’Islam”. Il Messaggero di Allah (su di lui la pace e la benedizione di Dio) disse: “L’Islam è che tu testimoni che non c’è altro Dio all’infuori di Lui e che Muhammad è il suo Messaggero; che tu compia la preghiera rituale, versi l’elemosina legale, digiuni nel mese di Ramadân e faccia il pellegrinaggio alla Casa (Ka’aba) se ne hai le possibilità”” (citato nel progetto Per conoscere il mondo arabo, ideazione e coordinamento di Concetta De Septis, a cura di Monica Ruocco).
In questo hadith è contenuto il credo e il culto dell’islam (sottomissione).
La professione di fede (shahâdah)
“Io testimonio che non c’è altro Dio all’infuori di Lui e che Muhammad è il suo Messaggero”.
La professione di fede consiste in questa breve formula. La shahâdah conferisce il carattere, la qualità di musulmano alla persona che la recita. Chi si converte all’islam non è sottoposto ad alcun rito se non alla recita di questa formula davanti ad almeno due testimoni. La shahâdah non solo immette nell’umma (comunità dei fedeli), ma assicura la salvezza, se proferita con cuore sincero.
Ma Dio (Allah), l’oggetto della fede, chi è?
Con Lui, in chi e in che cosa crede il musulmano?
Allah è il Dio, l’unico. Il Corano (al-Qur’an) gli attribuisce 99 nomi stupendi, che il pio musulmano ricorda con la corona (subha). Sono nomi che escludono qualsiasi imperfezione, che si riferiscono all’essenza di Dio e al suo operare. I seguaci del profeta si prostrano ad Allah, il Creatore, il Clemente, il Misericordioso, Colui che perdona, il Trascendente, il Sapiente, l’Onniscente, cinque volte al giorno. Questi “aggettivi” sono uguali a quelli che troviamo nel credo e nella teologia cristiana.
Con la shahâdah il musulmano riconosce che Dio ha inviato uomini santi, impeccabili, per ammonire gli uomini: indicare loro il vero Dio e la legge morale. Nella lista dei profeti compaiono molti personaggi dell’Antico Testamento, Gesù e Muhammad, il “sigillo dei profeti”.
I profeti sono i messaggeri di Allah, coloro che sotto la sua dettatura hanno compilato i libri sacri, “fatti scendere dal cielo” (kutub) e che hanno consegnato agli uomini. Purtroppo sia i figli di Israele, sia i discepoli di Gesù non solo non hanno praticato le scritture (Torah, Salmi, Evangelo), ma le hanno manomesse. Allora Allah fa scendere dal cielo il Corano (al-Qur’an), che abroga tutti i precedenti libri sacri. Il Corano, scritto in arabo, in arabo deve essere tramandato e insegnato. Poiché contiene i pilastri del culto e del codice di comportamento morale privato e pubblico, ne sono proibite le traduzioni.
Oggetto di fede sono anche gli angeli (malâ’ika), esseri di luce, incaricati di sorvegliare gli uomini.
“Credere nell’ultimo giorno consiste nell’aspettare l’interrogatorio della tomba e, poi, nello sperare il Giudizio universale, che interverrà dopo la risurrezione generale” (Maurice Borrmans, in Per conoscere l’islam. Cristiani e musulmani nel mondo di oggi, ed. Piemme, Roma, 1991). Con l’utlimo giorno giungerà a ogni uomo il premio o il castigo, secondo le sue opere. A un inferno, non mai eterno, corrisponde un paradiso di delizie terrestri.
Al premio e al castigo si è predestinati. Credere nella predestinazione significa che “tutti gli atti umani, tanto i liberi quanto i necessari, si realizzano per volontà dell’onnipotente, per un decreto che lui ha deciso nella pre-eternità e per la conoscenza che lui ne ha al momento della loro realizzazione” (Maurice Borrmans, op. cit.).
Il culto
Come in tutte le religioni, anche nell’islam, il culto costituisce l’espressione individuale e/o collettiva della fede. Un culto, quello islamico, con intense, ma ridotte, espressioni liturgiche, senza intermediari. I muezin (mu’adhdhin) che dal minareto invitano alla preghiera, come gli imam (colui che sta davanti) che nella moschea guidano la preghiera rituale del venerdì, non sono dei “sacerdoti”.
Il culto, almeno in teoria, è affidato alla responsabilità personale del musulmano, “se ne hai le possibilità”. In pratica, nei paesi musulmani, il controllo sociale è forte ed è difficile sottrarsi a gesti e riti che, per la struttura stessa dell’islam, coinvolgono la vita sociale. Comunque il Corano codifica cinque modalità di culto, che i nostri insegnanti di storia ci hanno insegnato sotto il nome di “pilastri dell’islam”.
Prima di elencarli osservo che noi cristiani siamo tentati di definire questi “pilastri” come delle prescrizioni, come dei “comandamenti”. Sono distinti, invece, dalla sharía, la legge. Sono dei modi di professare la fede, di riconoscere il Creatore, di sottomettersi alla sua volontà, prima che un fare:
1. la shahâdah, professione dell’unicità di Dio e del suo profeta (vedi sopra);
2. la preghiera rituale (salât), cinque volte al giorno, a tempi precisi indicati dal muezin, guardando la Mecca e dopo la purificazione. Può essere una preghiera individuale o comunitaria, come quella del Venerdì a mezzogiorno, guidata dall’imam che tiene il sermone;
3. l’elemosina legale (zakât). Consiste in una imposta del 10% prelevata sul reddito annuo e destinata alla cassa della comunità. Inserita nelle tasse statali, oggi sopravvive come iniziativa privata, non rituale;
4. il digiuno di Ramadân (sawm siyâm). Per tutto il mese lunare, dall’alba al tramonto, i musulmani osservanti si astengono dal mangiare e dal bere, dal fumare e dall’odorare profumi, dai rapporti coniugali, pregano e meditano nelle moschee. Dopo il tramonto mangiano, bevono, si divertono. Il ramadan diventa un momento di riflessione comunitaria, in cui l’osservanza delle prescrizioni alimentari si fa più rigida e più cosciente e più cosciente e forte l’affermazione dell’appartenenza alla comunità;
5. il pellegrinaggio (hagg) alla Mecca. Ad ogni musulmano è fatto obbligo, almeno una volta in vita, se ne ha la possibilità, di recarsi alla Casa di Dio. “Rammenta quando facemmo abitare Abramo nella casa di Dio dicendogli: “Non associarmi oggetto alcuno, ma purifica la mia casa per quei che l’aggirano pii, per i riti in preghiera, per chi s’inchina e si prostra! E leva fra gli uomini voce d’invito al pellegrinaggio, sì che vengano a te a piedi, e su cammelli slanciati, che vengano a te da ogni valico fondo”” (cit. in Per conoscere l’islam…, pp. 45-46).
Se la shahâdah qualifica il musulmano, è la legge (sharía) di Dio a ordinare la sua vita individuale e collettiva. Questa legge (cfr. Sura 17 del Viaggio notturno, 22-39) assomiglia molto al decalogo come è riportato in Esodo 20, 2-17 e in Deuteronomio 5, 6-21.
Legge religiosa e civile
La legge che proibisce di uccidere e di ferire, di fornicare e di accusare falsamente le donne, di rubare e di ribellarsi, di bere e diffondere alcoolici e di apostatare, prevede anche un codice penale. Come la legge, le pene per i delitti elencati sono prescritte dal Corano. Si va dalla legge del taglione per chi ferisce e uccide, alla fustigazione degli adulteri, al taglio della mano per i ladri.
Oggi, le leggi e le pene promulgate e comminate nell’islam sono soggette a controlli e a disciplina statale, ma questo non significa che siano meno dure e crudeli. Punizioni corporali, taglio della mano, pena capitale, sono comminate e convalidate da tribunali civili, in paesi arabo-musulmani, basti per tutti l’Arabia Saudita.
Non si può tuttavia dimenticare che l’islam ha tanti volti quante le culture che l’hanno accolto e che, se varia la pratica, varia pure la compagine sociale e statale. Oggi è difficile trovare l’islam delle origini. Banalizzato o radicalizzato ha però mantenuto la matrice giuridica delle tribù e delle città contemporanee del profeta e, per questo, va reinterpretato, riletto a partire dalle situazioni di diaspora, di sviluppo delle scienze, delle comunicazioni, della mobilità umana, della ricerca di un dialogo fra i credenti del libro (ebrei, cristiani e musulmani).
L’islam degli immigrati di casa nostra è senz’altro più “povero”, senza supporti comunitari, spesso, senza sostegni statali, non per questo è banale o ipocrita. In mezzo a noi esistono fedeli dell’islam, musulmani sinceri per i quali la shahâdah e la sharía sono le guide della loro vita orientata ad Allah e in armonia con il popolo che li accoglie.