Porte aperte e ponti sospesi…

di Tomasin Paolo

Ritornare con la nave
Dalla mia esperienza di volontariato internazionale nel Nordest del Brasile avrei voluto ritornare via nave. Avrei voluto ritornare in nave perché il viaggio si sarebbe protratto per una decina di giorni. Mi sarei staccato lentamente dalla costa brasiliana, dove ho trascorso più di tre anni della mia vita e, attraversando l’Oceano Atlantico, avrei raggiunto quella italiana. Oggi, grazie agli aerei, siamo abituati a viaggiare sempre più velocemente e nello spazio di una notte, senza rendercene conto più di tanto, passiamo da un continente all’altro, da una realtà ad un’altra completamente differente. Oggi, di solito, non si pensa più al viaggio in sé, si guarda direttamente al traguardo: il viaggio è quasi un ostacolo, una perdita di tempo, una parentesi tra la partenza e l’arrivo. Probabilmente, queste osservazioni le capiranno meglio coloro (emigranti, missionari, volontari, ecc.) i quali anni fa, come unico mezzo a disposizione per raggiungere l’America Latina o per ritornare in Italia, avevano solamente una lenta nave che non arrivava mai.
Ebbene, io avrei voluto ritornare in nave non per rituffarmi nostalgicamente nel passato, ma per scoprire il viaggio come momento spazio-temporale in cui si possa riflettere e così mettere ordine tra i propri ricordi, tra le idee contrastanti, tra i sentimenti ancora presenti; in cui si riesca, insomma, a staccarsi lentamente da una realtà per incominciare ad attaccarsi ad un’altra. Avrei voluto ritornare in nave, ma purtroppo e per vari motivi, non ci sono riuscito. Nello spazio di una notte sono stato anch’io catapultato da Recife a Milano, dal calore equatoriale all’incerta primavera milanese, da tre anni passati felicemente in un ambiente stimolante ad un ambiente italiano da ricostruire.

Fare un bilancio
Se non sono riuscito ad utilizzare il viaggio per riflettere sulla mia esperienza, vorrei perlomeno e in parte farlo qui, in questo spazio che Madrugada mi ha concesso. Non mi sento nella condizione di fare bilanci, valutazioni e rendiconti. La ragioneria non può e non deve avere niente a che fare con l’interscambio umano, con la conoscenza dell’altro, con le esperienze di vita. Non ho nemmeno la pretesa di voler insegnare qualcosa a tutti coloro che credono nella solidarietà e cooperazione internazionale. Vorrei, più limitatamente, tentare di comunicarvi alcuni pensieri inconclusi che mi porto dentro. Ad alcuni potranno sembrare perfino banali e comuni a molti che viaggiano, magari anche per solo turismo, in un paese del Sud del mondo.

Con gli occhi del Sud
Ed è lecito forse partire chiedendosi il senso che oggi riveste un’esperienza di volontariato internazionale o anche solo un viaggio alternativo al Sud. Anzi, sarebbe meglio dire i vari livelli di senso che tale esperienza acquista: da quello individuale a quello sociale, passando per quello attribuito dai soggetti della cooperazione a quello che gli attribuiscono i partners del sud del mondo. E probabilmente, nonostante tutti gli sforzi sin qui fatti, il livello di senso meno indagato rimane ancora quest’utlimo.
In questi anni, in cui ho dato il mio contributo come ricercatore sociale in una scuola di formazione sindacale e popolare, chiamata Equip, mi sono sforzato di capire il senso che i brasiliani davano al mio essere lì con loro. Tra me e me pensavo che quel senso che io stavo dando alla mia scelta, alla mia esperienza non poteva che risultare incompleto se non riusciva ad includere il senso che gli altri, coloro che vivevano e lavoravano con me, davano alla stessa scelta ed esperienza. Spesso, infatti, ci dimentichiamo di chiederci quello che gli altri pensano di noi, delle nostre azioni, soprattutto quando siamo convinti di fare delle cose giuste, etiche, solidali, importanti, il giudizio degli altri non sembra importarci granché.
Non so se sono riuscito a capire fino in fondo ciò che ha significato per loro la mia presenza. È certo comunque che l’immagine del ponte o della porta aperta, si avvicina molto al senso attribuito all’azione e alla presenza dei volontari e della cooperazione internazionale.

Collegamento a doppio senso
Un ponte sospeso tra realtà lontane, che unisce, che mette in contatto mondi diversi e distanti, alle volte quasi incomunicabili; una porta aperta che prospetta che prospetta nuove uscite, nuovi scenari, una porta attraverso cui si può passare senza bussare. Ma quando un ponte è stato gettato o una porta è stata completamente aperta non si possono avere direzioni privilegiate o prioritarie di transito. Ponti sospesi e porte aperte sono bidirezionali e non a senso unico, aprono alternative, creano complessità, ci mettono in contatto con gli altri, ci portano da una condizione di appartenenza ristretta (dove ogni piccolo gruppo vive fortemente coeso come fosse un’isola senza contatti con l’esterno) ad una momentanea di spaesamento generale (in cui perde ogni referenzialità). Quando noi del Nord del mondo gettiamo un ponte, apriamo una porta verso il Sud del mondo, dobbiamo sentirci pronti ad uscire dalla nostra realtà, ovvero dobbiamo lasciarci influenzare, trasformare, cambiare.
Mi sembra questo il senso dell’essere volontario che le persone con cui ho vissuto per alcuni anni, volessero che comprendessi. Il MLAL (Movimento Laici America Latina), l’ONG con cui sono partito, e le altre associazioni e organizzazioni non governative, stanno scoprendo questo senso e lo stanno chiamando “interscambio”.

Penso che un viaggio in nave aiuterebbe certamente a capire più a fondo la vastità oceanica dell’appartenenza che dobbiamo ricostruire dopo ogni spaesamento in un paese del Sud del mondo…