Rwanda senza futuro?
La spartizione
Con la dichiarazione di pace del 18 luglio 1994 il Rwanda si presenta nel modo seguente: le due Prefetture sud-occidentali di Gikongoro e di Cyangugu sono sotto il presidio delle truppe francesi (zona turchese), con una popolazione, a prevalenza Hutu, di circa 1 milione e mezzo di abitanti; le altre sette Prefetture godono dell’azione del nuovo governo e contano una popolazione di circa 2 milioni di abitanti a prevalenza Tutsi, fra cui 80 o 100 mila rientrati recentemente dall’Uganda e dal Burundi. All’esterno del Rwanda, nei campi profughi di Zaire, Burundi e Tanzania si contano circa 2 milioni di esuli Hutu e fra essi parte dell’ex esercito nazionale (F.A.R.) ancora armato, con il codazzo innumerevole di miliziani.
Le due etnie sono fisicamente separate: i Tutsi portano la gloria della vittoria e l’onore di aver liberato il Rwanda dal dispotismo; gli Hutu hanno il disonore della sconfitta e il marchio infame della vergogna per i massacri compiuti.
Tutte e due le etnie condividono la tristezza di una situazione angosciosa per i morti lasciati sul terreno (più di un milione), la perdita dei beni materiali e la conseguenza di vivere in situazioni impossibili sia in Rwanda, perché è stato distrutto il tessuto sociale, le strutture ospedaliere e del commercio, sia nei campi profughi, perché si vive in un clima di odio micidiale, terreno fecondo di altri crimini, e alle dipendenze umilianti degli organismi internazionali.
L’attuale governo del Rwanda è composto da elementi delle due etnie, secondo gli accordi di pace di Arusha del 3 agosto 1993. Il potere effettivo è saldamente consegnato nelle mani di Paul Kagame, Tutsi, Vicepresidente e Ministro della Difesa. Come ha guidato le truppe del F.P.R. alla vittoria, così egli è certo di portare il Paese alla stabilità politica mediante un regime di legge militare (martial Law).
Il governo vorrebbe stabilire la relazione fra le due etnie sulla legge del più forte, del vincitore, relegando gli Hutu ad un livello inferiore (“quello affidato loro dalla natura che li ha fatti sudditi naturali dei Tutsi”) e ridando ai Tutsi il dominio loro “connaturale”, che la ìââìáodiosa rivoluzione sociale degli anni cinquanta, orchestrata dalla Chiesa, aveva loro strappatoÈ. Nei piani governativi c’è dunque la volontà di far rientrare gli esuli, purché siano ben consci della loro inferiorità politica e disposti a non creare alcuna alternativa. La strada del rientro è comunque sbarrata per coloro che sono responsabili dei massacri. Così si esprime Paul Kagame: “Nessuno ha niente da temere, a meno che non abbia avuto un ruolo attivo nel massacro dei Tutsi”.
Il nuovo governo del Rwanda
La formazione del governo è stata vistosamente manipolata dai Tutsi. Senza troppe discussioni hanno aggiunto all’organico dei ministeri la carica di Vicepresidente della Repubblica, non prevista dagli accordi di pace di Arusha. Se pensiamo ai duri scontri dei dibattiti politici dopo il 3 agosto 1993, in cui non hanno concesso alcuna possibilità di cambiare una virgola per quanto riguarda la formazione del governo, l’innovazione apportata indica la loro egemonia nel cammino della vita politica: con loro, e come essi vogliono, senza discutere!
La presenza dei rappresentanti dei vari partiti politici è ridicola. Sono degli ostaggi nelle mani dei vincitori. Del resto non rappresentano più nessuno, dal momento che esiste un regime militare e che gli attuali abitanti liberi del Rwanda sono quasi tutti dell’etnia Tutsi o simpatizzanti del loro Partito Liberale. Chi oserebbe schierarsi contro la forza politica dominante, in questo periodo di grande incertezza, laddove la libertà di pensiero e di espressione pu” essere causa di rappresaglia?
Le autorità attuali sono sensibili alle reazioni dei Bianchi. Desiderano presentare loro un quadro democratico, ligio agli accordi di Arusha, per accattivarsi la benevolenza degli investimenti e di aiuti economici, di cui il Paese ha fortemente bisogno. Di fronte alla bancarotta dell’economia e allo zero assoluto trovato nella Banca Nazionale, i capitali esteri, sotto forma di aiuti internazionali o di benefattori più o meno privati, sono estremamente necessari almeno per mantenere in esercizio l’esercito nazionale.
La parvenza di democrazia e di legalità del Governo consentono al F.P.R. di continuare a perseguire gli obiettivi principali: stabilire irrevocabilmente il potere nelle mani dei vincitori e operare la pulizia etnica per sterminare gli Hutu o almeno per renderli inoffensivi. Sotto tale egida il governo attuale è al riparo da ogni intervento punitivo o critico delle organizzazioni internazionali, ritenendo la propria azione come opera normale negli affari interni della nazione. Ci troviamo in pratica di fronte ad un governo di parte, dal carattere dittatoriale e genocida. Gli ultimi comunicati stampa, che testimoniano come l’esercito abbia ucciso in sordina, solo a Kigali, cento persone e trucidato, lontano dalle telecamere, 30 mila Hutu che cercavano di rientrare dalla “zona turchese” sotto la pressione dell’O.N.U., ne sono una conferma (Avvenire, 12 ottobre 1994).
Le possibili soluzioni
é stato scritto che la guerra rwandese non si vince sul campo o non si vince con l’azzeramento dell’avversario (Nigrizia, luglio-agosto 1994). Tutti confidiamo in una saggezza che conduca la Nazione rwandese verso la riconciliazione. Per la Chiesa del Rwanda, nonostante i suoi molti errori in politica interna, è stata questa la parola d’ordine ancor prima dell’inizio del conflitto, quando si preparava la visita del Santo Padre (7-9 settembre 1990). Purtroppo la parola è caduta nel vuoto… e nessuna delle attuali autorità governative si ispira ad un programma di riconciliazione. Anzi, sembra che il problema non esista, in quanto oggetto esclusivo degli obiettivi propri dell’azione militare, sia in modo straordinario nelle azioni di guerra che in modo ordinario nell’amministrazione giuridica del Paese. Di riconciliazione non c’è bisogno, perché tutti sono già riconciliati nell’unica etnia che ha diritto di vita in Rwanda.
Il futuro politico del Rwanda esige che sia rimosso prima di tutto questo handicap intellettuale e psicologico e che la politica sia orientata verso il pluralismo delle etnie, sulla base di un perdono effettivo e coraggioso e sulla rifondazione di uno Stato a carattere plurietnico. Tale risultato pu” essere raggiunto solo con il concorso degli organismi internazionali politici e umanitari, e delle varie diplomazie. Un contributo essenziale sarà dato anche dalle chiese cristiane, una volta illuminate dai segni dei tempi che la formazione del cuore dell’uomo vale più di tutte le altre opere e che per essa bisogna investire le forze migliori.
Il primo risultato della cooperazione internazionale potrebbe essere un ordine del giorno sul banco delle Nazioni Unite per un’ampia discussione sui fattori umani implicati nella storia degli ultimi mesi e delle cause che hanno condotto alla diabolica guerra civile di aprile. Un altro passo è la costituzione di un tribunale internazionale che si pronunzi apertamente sui crimini contro l’umanità commessi dai membri delle due etnie. é un’operazione difficile perché implica:
– il riconoscimento dell’autorità politica delle due etnie, così sanzionato che possano sedere al medesimo tavolo con parità di diritto;
– il rifiuto dei vincitori di appoggiarsi sui diritti della vittoria militare;
– la volontà pratica e politica dei vincitori e dei vinti di superare le incomprensioni e i torti reciproci scaturiti dalle vicissitudini di questi ultimi trent’anni di storia rwandese;
– la sensibilizzazione del popolo rwandese a rivedere i comportamenti quotidiani degli uni verso gli altri, perché siano ispirati alla convivenza pacifica e alla condivisione di oneri e responsabilità nella vita sociale, economica e culturale del Paese.
Il fallimento di un tale intervento umanitario porterebbe il Rwanda allo sterminio di una etnia, basato sui meccanismi tradizionali dell’odio e dell’incapacità nell’accogliere il diverso-da-sé. La Nazione si strutturerebbe allora sulla solidarietà dei membri della stessa etnia a causa della paura degli esterni-nemici, e su un sistema militare forte e intransigente verso ogni sintomo d’attacco all’autorità costituita. Un tale sistema era presente nel Burundi fino alle ultime elezioni del giugno 1993. Nel contempo all’esterno del Rwanda avremmo una popolazione (oggi di 3 milioni e mezzo) in cerca di terra dove abitare, terra che le sarà negata dalle nazioni sorelle quali il Burundi, la Tanzania e lo Zaire. Costretta a vivere ai margini delle frontiere, confinata in campi profughi e costretta ad una condizione subumana di vita, essa acquisterebbe i caratteri di un popolo palestinese, con tutte le conseguenze di instabilità politica a danno dell’intera Regione dei Grandi Laghi, e diverrebbe un pericolo perpetuo per il Rwanda di un attacco armato per un altro ciclo di vendette e massacri.
È evidente che per una soluzione equa, desiderata da tutti, e per evitare un disastro umanitario, si richiede a tutti di condividere pensieri di pace e di giustizia al di sopra delle parti: uno spirito umanitario interessato esclusivamente al bene dell’uomo, oso dire una ispirazione cristiana ove la componente del perdono e della giustizia sociale fra individui e popolazioni, diventi una caratteristica propria della storia di due popolazioni figlie della stessa ed unica terra rwandese.