Costruire la speranza
“Il più bello dei mari è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti.
E quello che vorrei dirti di più bello non te l’ho ancora detto”.
(Nazim Hikmet)
Come coniugare l’utopia con il dovere di rischiare nel quotidiano, del lasciarsi provocare dagli avvenimenti, senza rinunciare alla radicalità della speranza e senza disincarnarsi dalla storia?
é quanto mi sto chiedendo mentre sono in procinto di partire per l’Assemblea annuale di Macondo in Brasile e successivamente arrivare a Lima, dove vorremmo costruire con l’amico Moses un luogo di incontro, di scambio, di amicizia in Peù.
Perché, vi chiederete, noi continuiamo a camminare, aprire strade nuove? Perché la strada della pace e dell’incontro è sempre “oltre”, non più sulla strada di ieri lasciata alle spalle. Appartiene al respiro vastissimo di chi coltiva una rosa ed è come se fiorisse l’universo: “Chi vive e soffre su di una zolla di terra, vive e soffre su tutta la terra”.
Ecco, il dovere di rischiare nel quotidiano viene dal non dare per scontato ciò che si è, ciò che si fa, ciò che si ha. E mentre si lascia coinvolgere dalle cose, la vita ha bisogno di essere illuminata dal sogno e dall’utopia. Lasciare che solo un raggio di luce vivifichi il quotidiano vuol dire abbandonarsi allo spazio e assaporare la pace che fonda l’ordine delle cose.
Tante volte, messi a nudo dalla luce, ci domandiamo dove abita la nostra fedeltà. Io penso che stia nel cambiamento. Cambiamento che non allontana, ma innerva ad un livello più profondo ciò che è stato vissuto finora. E quindi amici, lotte, ricerche comunitarie, vanno riconquistati ogni giorno rischiando magari di perderli, spingendoli sempre di nuovo ad uno spazio più ampio senza restringerli alle misure e ai bisogni nostri, ma neppure degli altri.
Stranamente la pace prima che di comunione ha bisogno di autonomia. Anzi la comunione nasce quando l’autonomia si afferma ed è possibile stendere la mano senza altra pretesa che stringerne un’altra.
Il problema che vorrei porre è proprio quello del discernimento del tempo in cui viviamo, tempo di grazia e di responsabilità (il kairòs). Il tempo del kairòs è un tempo di gioia e di salvezza. Che vuol dire salvezza se non la fraternità con gli uomini e la comunione con Dio? Quale sarà il volto dell’avvenire? L’irruzione dei poveri sulla ribalta della storia diventa l’occasione per realizzare la venuta di Dio. é un incontro di libertà, un incontro sponsale in senso forte. Si fa festa per un matrimonio, per la nascita di un figlio. Si fa memoria di questi eventi, ed è ancora festa. Le nostre feste sono momenti di incontro. La testimonianza cui siamo chiamati in questa fase turbinosa è quella di sconfiggere la povertà, avendo una consapevolezza critica e militante della realtà.
Quando il rarefarsi delle relazioni significative ci consegna alla necessità di tenere sempre alta la guardia, diffidando di tutto e di tutti, allora misuriamo con mano come siamo lontani dalla consapevolezza delle urgenze che la realtà presente ci propone.
Occorre scuotersi da simili ipnotismi, prima di verificare quanto sia spaventosamente breve il passo tra l’indifferenza e l’odio. Prendere il proprio sacco sulle spalle e addentrarsi, convivendo con mille paure, nei vasti territori del confronto, è avventura semplicemente doverosa per rimanere vivi e ritrovare le ragioni delle essenzialità. E dal deserto severo e scarno delle nostre individualità, spogliate dalle tentazioni di assoluto, occorre riprendere a progettare e costruire ponti con la realtà di questo mondo e con l’altrui diversità. Scopriamo quindi che ci sono persone, e possono essere tantissime, che vedono le cose diversamente da noi.
Se siamo tutti “extracomunitari” abbiamo lo stesso compito: vivere da uomini e da donne con altri uomini e donne. Per questo è necessario alleggerire le nostre grandi verità che a noi sembrano assolute e rendere più forte l’etica del confronto.
Il “nuovo” che avanza in Italia ha contorni tutt’altro che rassicuranti. L’irritante constatazione di uno scenario destinato con ogni probabilità a durare, è un fastidio che neppure i primi freddi di autunno sembrano poter scacciare, come le zanzare. é una preoccupazione capace di succhiarci ben più del sangue: la speranza e la vitalità che alimentano ogni umana relazione.
Cosa possiamo fare noi, cittadini del Villaggio Macondo, che cercano di lavorare assieme sulle idee e sulla speranza? Resistere alla tristezza, all’avvilimento, all’insidiosa abitudine al peggio, lavorando al superamento di se stessi e del dato, verso un bene maggiore.
Essere eco, con coerenti scelte personali di vita, di un messaggio alternativo al dominio vigente, che dica: rincorrere l’utopia di una convivialità delle differenze, fra le contraddizioni dell’Occidente; senza nulla di solido sotto i piedi, andare avanti, testardamente, sempre dalla parte degli umili, senza temere di portare fino alle ultime conseguenze la nostra responsabilità di liberi figli di Dio.
Fare tante brecce, anche piccole. La resistenza interiore ha scalzato poteri più duri di quello di oggi. Criticare è misurare su criteri di valore, per costruire prospettive liberanti. Senza illudersi e senza cedere. Sapendo che un popolo “si sveglia ogni cento anni” (Pablo Neruda). Ma ogni giorno ha da vegliare per lui chi si trova posto di sentinella, per non perire tutti.
È come se dovessimo metterci in viaggio per una terra sconosciuta con dei compagni di strada impegnati come noi nella fedeltà ostinata, costruita anche attraverso questo foglio stampato che è Madrugada.
È insieme ricerca e colloquio con i lettori, ma anche fatica di costruire un’opinione pubblica ed una sensibilizzazione. Sono cresciute le domande e la terra rimane sconosciuta. Ci viene chiesto l’impossibile, eppure non abbiamo scuse. Con la consapevolezza di essere frutti fuori stagione, e la sola vanità di riconoscerci “servi inutili”.
Novembre 1994