Il volto indigeno di Dio
Intervista a Samuel Ruiz, vescovo del Chiapas
Mons. Samuel Ruiz è messicano, figlio di emigranti negli Stati Uniti. Si è laureato in teologia e sacra scrittura nell’Università Gregoriana di Roma nel 1949. Ad appena 35 anni è stato ordinato vescovo da Papa Giovanni XXIII. Fin dall’inizio don Samuel si è occupato delle condizioni di miseria nelle quali è costretto a vivere l’80% della popolazione della sua diocesi, la maggior parte della quale è indigena. Dal ’69 al ’75 è stato presidente della Commissione Episcopale della Pastorale indigena della Chiesa messicana; è stato, inoltre, un protagonista della conferenza episcopale latino-americana di Medellin che segnò una svolta nella Chiesa del continente e che fece propria “l’opzione preferenziale per i poveri”. In quella occasione Paolo VI scelse mons. Ruiz per esporre il tema dell’evangelizzazione in America Latina. Durante gli anni settanta, periodo di uccisioni arbitrarie, di torture e di sparizioni, don Samuel fondò il Centro dei Diritti Umani “Bartolomè de Las Casas”. In seguito ai recenti avvenimenti in Chiapas ha svolto un importante ruolo di mediazione tra il governo e l’esercito zapatista, prodigandosi per la realizzazione di accordi di pace che non siano una semplice tregua ma che portino al superamento delle strutturali condizioni di miseria, unica condizione per il conseguimento di una pace duratura. Attualmente mons. Ruiz è stato candidato al premio Nobel per la pace.
Il mese scorso don Samuel è passato in Italia. L’Associazione Macondo, in collaborazione con il “Coordinamento italiano per il Chiapas” e la “Fondazione internazionale Lelio Basso”, ha organizzato un incontro pubblico, prima del quale lo abbiamo incontrato.
Don Samuel, cosa significa essere vescovo in Chiapas?
La diocesi di San Cristobal de Las Casas ha una estensione di 33.000 kmq. ed è abitata da circa 1.200.000 abitanti dei quali il 75% indigenti discendenti del popolo Maya. Posso dirti che per circa 30 anni sono stato come un pesce sotto acqua quando dorme, ossia con gli occhi aperti ma senza vedere niente. Così io vedevo soltanto chiese piene di indios i quali potevano cantare con grande gioia; pertanto io pensavo che in quella terra e con quella gente si poteva sviluppare una Chiesa forte e solida. Ma non mi rendevo conto della loro sofferenza, io vedevo soltanto uomini felici.
Finiti i primi 30 anni cominciai a rendermi conto della situazione. La mia prima impressione è stata di sconcerto per non essermi reso conto della realtà prima. Da quel momento mi sono accorto che esisteva un mondo multiculturale. Mi ricordo che durante una celebrazione eucaristica avevo parlato così bene che anche io ero commosso da solo, quando, decidendo di continuare, il parroco mi fermò invitandomi a sedere per un po’. “Ma come”, dissi io, “adesso c’è l’offertorio, dobbiamo continuare…”; ma il parroco mi rispose “sì, ma è solamente che nessuno qui ha capito quello che lei ha spiegato perché parlano un’altra lingua”. Allora capii che la mia prepotenza doveva essere sottomessa umilmente alla cultura di quelle popolazioni. Dopo qualche anno ho imparato molte cose, e soprattutto ero riuscito ad essere più umile e scoprire i grandi valori di quella gente.
Un’altra volta ricordo di essere stato in un luogo per una visita dove c’era anche il parroco e all’improvviso mi venne incontro un uomo per il quale avevo fatto una raccomandazione per far entrare la moglie ammalata in ospedale. Mi informò che sua moglie era uscita e allora gli chiesi come stava, “bene”, mi rispose, “e grazie tante per il suo ricordo”. Stavo andando via dopo aver parlato con il parroco quando una donna mi venne incontro correndo. Era la moglie di quell’uomo che mi ringraziò per aver domandato al marito notizie di lei e mi portò, come dono, un cesto pieno di cose da mangiare… io non sapevo cosa fare, come strappare dalle mani di quella donna quelle cose che erano la sua sussistenza, e come rifiutare senza offenderla? Sono state veramente esperienze emozionanti, molto forti per me.
Cosa si intende per pastorale indigena?
Il nostro processo di conversione è stato lento e graduale. Ricordo nel periodo di Medellin la nostra sofferta partecipazione ad un incontro nel quale una coppia di antropologi ci spiegarono le culture indigene dell’America Latina. Fu un incontro molto scioccante, non soltanto per me ma anche per gli altri vescovi presenti, poiché da quanto emerse eravamo niente meno che i principali responsabili della distruzione di tutte le culture del continente. Perché avevamo identificato l’evangelizzazione con la cultura occidentale, dimenticandoci che il Vangelo stesso non nacque in occidente, bensì in oriente e solo successivamente si incarnò, dopo una lunga esperienza, nell’impegno occidentale (nell’impero romano) e poi venne esportato per occidentalizzare l’oriente.
Mi ricordo che posi due domande agli antropologi: la prima mirante a sapere se nelle culture da loro conosciute esistevano degli elementi fondamentali e degli altri secondari. A tale quesito mi venne risposto che in ogni cultura è possibile scorgere un punto vitale contornato da fattori marginali; la seconda domanda era se all’interno delle culture da loro studiate la religione fosse un fattore fondamentale o un fattore secondario. La risposta fu che all’interno delle culture latino-americane non ve ne era nessuna in cui l’elemento religioso non costituisse l’elemento centrale capace di raggruppare tutti i fattori culturali. Da allora iniziò per me una vera conversione. Mi chiedevo in continuazione “Cosa faccio io? Cosa facciamo noi? Cosa vuol dire evangelizzare, distruggere le altre culture? È a questo che sono stato inviato?”.
Da quel momento in poi iniziai a lavorare per far rinascere le culture nello splendore primitivo, distrutto dall’invasione chiamata “scoperta”. Così abbiamo fatto tutta questa strada per arrivare ad un altro momento che chiamerò della coscientizzazione per la costruzione del Regno di Dio nella giustizia e verità. A volte si pensa che si debbano fare grandi cose per coscientizzare ma in realtà sono le piccole cose che arrivano a fare prendere coscienza. Ricordo l’esperienza di Michela, una ragazza Ciamula che mi parlava con lo sguardo rivolto verso il basso… quando la incontrai di nuovo dopo qualche tempo mentre stava tornando dalla seconda lezione, mi venne incontro e guardandomi negli occhi mi mostrò il suo quaderno dicendomi che aveva cominciato a scrivere. Sul foglio vi erano solo scarabocchi ma per lei era l’inizio di una strada di liberazione. Da quel momento in poi era al mio stesso livello, non abbassava più la testa quando mi vedeva, ma mi guardava negli occhi.
Da questo punto di vista la teologia della liberazione è più che altro una pratica di liberazione. Abbiamo espresso un piano per la riflessione delle comunità, partendo dalla considerazione che il catechista è colui che raccoglie la riflessione della parola di Dio nelle comunità. Proprio nella zona dove si è sviluppato il conflitto abbiamo chiesto a circa duecento catechisti cosa significasse per loro essere catechisti ed è emerso proprio il loro pensiero, secondo cui il catechista è colui che fa la raccolta delle riflessioni della parola di Dio nelle comunità.
Successivamente abbiamo espresso un piano per la riflessione comune delle circa duecento comunità. Le domande iniziali che abbiamo posto come base di riflessione per tutte le comunità erano: Dio ha un progetto riguardo la storia e noi come ci poniamo dinanzi a questo disegno? lo accettiamo o no? Come vivere dunque la fede, la speranza, la carità in un contesto contrario al piano di Dio? Quale è il piano di Dio nella realtà politica, in quella economica e in quella culturale? Come vivere la fede in queste realtà?
Immaginiamoci 200 comunità di 300 o 400 persone che discutono ad alta voce per arrivare, alla fine, ad una conclusione comunitaria. In questa maniera non abbiamo solo una catechesi insegnata ma la raccolta del pensiero collettivo della comunità. Credo che tale realtà tolga ogni dubbio a coloro che mi hanno chiesto se sia possibile per gli indios autodeterminarsi e orientare da soli la loro vita. Le comunità indigene, in realtà, hanno molto da insegnarci.
Esiste una relazione tra la pastorale effettuata nelle comunità e la ribellione indigena?
Noi non possiamo dire, come diocesi, di non aver niente a che fare con la ribellione nel Chiapas. Certamente la riflessione cristiana ha spinto queste popolazioni a recuperare la loro dignità, a scoprire cosa significa essere figli di Dio, quali sono i doveri ma anche i diritti che devono avere nella società. Sicuramente ciò di cui noi non siamo responsabili sono le aggressioni, le torture, le carcerazioni ingiuste, la morte ingiusta di tanta gente. Pertanto un piccolo gruppo, non tutti, circa il 3% di tutti gli indios, ha detto “basta, non possiamo più andare avanti così, perché tutte le strade sono chiuse e tutte le porte alle quali abbiamo bussato non si sono mai aperte e non abbiamo trovato risposta”. Ad esempio i Ciamulas, a cui le autorità hanno tolto le case, il bestiame, le loro cose, stanno ancora cercando una soluzione per tornare nel loro territorio. Sono stati espulsi perché hanno osato criticare, hanno alzato la testa; quindi vi sono più di 25.000 persone che sono sparse qua e là e che non sanno a chi rivolgersi per far valere i loro diritti e per tornare nelle loro comunità, non sanno se dirlo a Clinton o a Marcos, che senza dubbio è più vicino a loro. Per me è inspiegabile come questi indios che sono stati cacciati via non abbiano preso le armi in mano e stanno ancora aspettando una soluzione pacifica alle loro richieste. Ma altri sono arrivati alla disperazione ed hanno detto di non avere più la forza di andare avanti non avendo trovato attenzione ma soltanto inganno e distruzione. Allora hanno alzato la voce. Ciò che è accaduto il 1° gennaio 1994 è stato memorabile, ancora oggi non riesco a capire come sia andata poiché due giorni dopo, cioè il 2 pomeriggio e il 3 mattina, già tutti i mezzi di comunicazione internazionali erano là presenti, tutta l’Europa era là, radio, stampa, televisione.
Certamente la violenza non è un mezzo adeguato per fare giustizia, ma psicologicamente parlando abbiamo capito quale era la situazione di questa gente che si è rivoltata perché non aveva altre soluzioni, avendo già provato tutte le strade non violente.
La rivolta è scoppiata simbolicamente il 1° gennaio 1994, data che segnava l’entrata in vigore del Trattato di Libero Scambio del Nord America (NAFTA): quali sono le principali rivendicazioni e gli obiettivi dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN)?
Va detto che già il giorno dopo vi erano circa 25.000 soldati ben armati che si erano recati nella regione, ed il movimento ha saputo resistere a questa aggressione. Quali sono le loro rivendicazioni… non vogliono impadronirsi del potere per fare giustizia, considerato che non si era fatta giustizia dopo tanti anni, ma desideravano farsi portavoce delle rivendicazioni della società civile, affinché questa si assumesse la propria responsabilità nella transizione aspettata di un governo non corrispondente alle esigenze della popolazione, per arrivare poi ad un governo più in rapporto con le esigenze della popolazione, cioè eletto veramente dal popolo. Anche le cose da loro richieste esprimono bene la situazione, non chiedevano automobili, televisioni, ecc., ma acqua, giustizia, pane, salute, elettricità, educazione. Il contrasto al quale si è assistito, espresso tra le domande degli indios e la guerra come unica risposta, ha costituito un’ulteriore forte spiegazione.
Adesso credo che per la prima volta nel nostro paese, dopo tanti anni, è emersa una possibilità di cambiamento. Non è un cambiamento automatico, che viene dall’alto, ma potrebbe nascere da una responsabilità comune poiché questo movimento ha interpellato tutti quanti, al di là dell’interpretazione che se ne può dare. È stata una provocazione forte per tutti i partiti politici che non hanno ancora una risposta adeguata alla situazione. È stata una provocazione anche per la società civile, per renderla cosciente della propria responsabilità: la società civile ha una responsabilità storica grande. È stata anche una provocazione per la stessa Chiesa del Messico che certamente ha anche lei delle responsabilità, indicabili nell’aver elargito indicazioni o direttive soltanto in ordine teologico o di moralità, per dire cosa è “buono” o cosa è “cattivo” senza entrare nella storia, sentendo come propria la sofferenza dell’altro.
E proprio a riguardo, l’insurrezione ha provocato una forte riflessione su queste tematiche all’interno della stessa conferenza episcopale.