Indios nel sud del Messico in lotta per una terra in cui vivere
Indios e progresso
Gli indios maya del Chiapas, nel sud del Messico, sono certo un “prossimo” più distante di quello della Bosnia o della Somalia, o più semplicemente degli extracomunitari di casa nostra, ma sempre “prossimo” restano. Appartengono alla nostra Storia, la storia fatta dagli uomini, con responsabilità di tutti, anche se non avvertita: una sola storia e, per chi crede, una sola salvezza.
Sono giunti d’improvviso alla ribalta della cronaca con bagliori e clamori di rivolta armata (e già ne sembrano spenti gli echi; le trattative attuali non interessano più…) allo spirare del ’93 e sul nascere del ’94. Due anni emblematici, carichi di ricordi e di promesse: il ’93, stando all’ONU, era l’anno dei Popoli indigeni; il ’94, stando al Governo messicano, è l’anno dell’ingresso del Messico nel Primo mondo, grazie al famoso “Trattato per il libero commercio” tra Stati Uniti, Canada e Messico (NAFTA).
Perché dunque questa rivolta? Non è un sogno entrare nel Primo mondo? Non è questo il progresso?… Se il progresso ha tanta razionalità economica da dimenticare la libera umanità e la sua incarnazione sulla terra, allora nel progresso l’indio fiuta ancora una volta alienazione e tradimento, emarginazione e sfruttamento. Non è il Primo mondo che interessa l’indio, ma in Mondo tout court, il mondo della sua terra, la terra su cui e di cui vive: la terra della sua coltivazione e della sua cultura.
Una storia che si ripete
Gli indios non parlano di storia, ce l’hanno nella memoria e nel sangue, l’hanno patita e scritta sulla propria pelle. La loro memoria della terra risale a prima della Conquista spagnola. La struttura di base della proprietà agraria consisteva allora nella “divisione dei villaggi” in vari quartieri o calpulli, ciascuno con una determinata estensione di terre, che non appartenevano individualmente a nessuno degli abitanti, ma erano concesse a una famiglia o a una tribù… con il criterio che chi abbandonava il calpulli o cessava di coltivare le terre assegnategli perdeva il diritto di partecipare alla proprietà comune (cit. in O.Paz, Il labirinto della solitudine, il Saggiatore, Milano 1982, p. 177).
Usurpazione di terre, rivolte e “matanzas” di indios furono uno dei risultati della Conquista, anche se le Leggi delle Indie proteggevano l’istituzione del calpulli: la pratica, come si sa (in questo caso, l’avidità degli “encomenderos”), va spesso contro i princìpi. Alla fine del secolo XVIII la situazione dei contadini (indios) era disperata. Le lotte per l’indipendenza dagli spagnoli (a partire dal 1810) si presenteranno come una rivoluzione agraria in gestazione. Gli indios si ribellano al seguito di due preti, Hidalgo e Morelos: il primo decreta l’abolizione della schiavitù, il secondo la distribuzione dei latifondi. Saranno giustiziati entrambi, la rivolta degli indios domata; la gloria dell’indipendenza toccherà a un comandante dell’esercito, Agustìn de Iturbide, nel 1821.
Ma l’indipendenza non realizzò il sogno degli indios. La costituzione del 1857 e le leggi di Riforma, col trionfo del liberalismo, decretano la fine delle associazioni religiose e della proprietà comunitaria indigena. Le cose peggiorano ancora con la dittatura di Porfirio Dìaz. Per gli indios è di nuovo lo sfruttamento, a vantaggio di chi compra, fa investimenti, fa rendere la terra, anche e soprattutto se straniero. La nazione progredisce, i suoi figli contadini sono alla fame.
Nel 1910-11 scoppia la Rivoluzione. Un altro eroe leggendario, Emiliano Zapata, solleva le popolazioni indigene del Sud del Messico, ponendo con decisione e semplicità il problema della terra: dal 1914 al 1919 il suo grido di battaglia fu “terra e libertà” (l’attuale rivolta degli indios è all’insegna dell'”esercito zapatista di liberazione nazionale”).
Ancora una speranza per gli indios-contadini, soprattutto con la distribuzione di terre sotto il governo di Cárdenas (1934). Ma la Rivoluzione si congela, burocratizza e clientelizza nel Partito Rivoluzionario Istituzionale, da sempre al potere in questo- secolo. L’attuale presidente della Repubblica, Salinas de Gortari, ha attuato una riforma che è per gli indios una vera controriforma agraria.
Modernità contro “ejido”
Con la Rivoluzione, l'”ejido” (= unità di terra comune, stabilita per legge), versione moderna ed estesa del calpulli, divenne la struttura portante di un sistema che attribuiva la proprietà del suolo e del sottosuolo alla nazione e il loro usufrutto a chi la lavorava. La riforma promossa dal presidente ha innalzato al rango costituzionale la proprietà dei 28.058 ejidos, puntando però alla loro privatizzazione e attribuendo ai contadini la possibilità di comprare e cedere le parcelle individuali.
In tal modo si è permesso a società private nazionali e straniere (a cominciare dalla Pepsi Cola) di investire in agricoltura. Risultato: la riforma presentata come misura di liberazione del contadino e di instaurazione della giustizia nelle campagne si è trasformata nell’unica libertà imprenditoriale di vendere e acquistare la terra e nella giustizia prodotta dal mercato: i contadini intraprendenti diventano prosperi imprenditori, quelli “pigri” sono ridotti a braccianti. Ecco la modernizzazione delle campagne, tutto secondo i canoni del progresso collaudato nel Primo mondo. Con un piccolo inconveniente: gli indios non sono tagliati per un’economia fatta solo di mercato e di profitto, non sono tagliati per la razionalità della merce e del libero commercio. Così il loro grido di disperazione (chi mai l’ha ascoltato?) diventa grido di rivolta per il ricupero della terra, e con essa della propria vita e della propria cultura.
Cultura e mito
Proprio di questo si tratta, di cultura degli indios. Lo sanno bene i testimoni impegnati, “compromessi” con loro, come il vescovo di San Cristìóbal de las Casas, mons. Samuel Ruiz, già considerato un “agitatore” e diventato ora un “pacificatore”, mediatore tra Governo e indios (varrà la pena prendersi tutto il tempo e la calma per leggere la lunga lettera pastorale che, presentata al Papa durante il suo viaggio in Messico nell’agosto 1993, valse al coraggioso vescovo un “grazie” sincero dal Vaticano: cfr. SIAL, n. 1-2 gennaio 1994, pp. 10-22, in part. p. 21: “esigenze etiche”). E lo sanno bene i testimoni itineranti della cattolicità, come Giovanni Paolo II, di cui si potrebbe rileggere il discorso dell’agosto ’93 ai rappresentanti degli indios del continente, presso il Santuario di Izamal; o quello del 1979, agli indios del Messico, nel suo primo viaggio nella loro terra (per il primo, cfr. SIAL n. 12, agosto 1993, pp. 1-3).
Anche dell’indio in rivolta sarà bene ricordare che ciò che lo contraddistingue è l’umiltà, l’attaccamento alla terra (humus). La cultura maya vive di questo attaccamento. L’uomo non è fatto semplicemente dalla polvere della terra, ma usando un prodotto vivo della terra: il mais. “I progenitori, i creatori e formatori… presero a discutere sulla creazione e la formazione della nostra prima madre e del nostro primo padre. Di mais giallo e di mais bianco venne fatta la loro carne; di pasta di mais vennero fatte le braccia e le gambe dell’uomo…”: così, secondo i loro antichi miti raccolti nel libro sacro: il Popolo Vuh (cfr. reprints Einaudi, Torino 1981, p. 126); i miti ripresi e attualizzati dalla grande narrativa indigenista (cfr., per esempio, M.A.Asturias, Uomini di mais, Rizzoli BUR, Milano 1981). Al mito della ragione assoluta e dominatrice di ogni realtà (uomo compreso), l’indio preferisce istintivamente la ragione umana dei suoi miti; al libero commercio della terra, l’uomo libero sulla madre-terra.
Commercio e uomo
Quale modernità dunque? Quella che si considera arrogantemente l’ultima tappa della storia mettendo tutti gli altri in fila dietro di sé, nella marcia del progresso; oppure quella che cerca di far propria la prospettiva dell’altro, considerandolo, nel caso dell’indio, persona differente dall’occidentale, rispettandolo nella sua alterità, ascoltandolo e comprendendo alla pari il suo modo di vedere le cose? È questa la modernità di un Bartolomé de Las Casas (e di molti altri, sia pure minoranza) nel secolo XVI, modernità oggi più attuale e necessaria che mai (cfr. G.Gutiérrez, En busca de los pobres de Jesucristo, CEP Lima, p. 33; cfr. pure M.Cayota, La sfida dell’utopia nel mondo nuovo, Ed. Messaggero, Padova 1992, parte III, nn. 2 e 3, pp. 291-464).
“Dio o l’oro” era il dilemma dei tempi della colonia. Oggi per l’indio potrebbe essere: “Uomo o commercio”. Dilemma che si risolve, per l’indio e per tutti, quando soggetti del libero commercio siano uomini liberi nella propria identità culturale, riconosciuta alla pari degli altri. Se non si parte dalla vita dell’uomo, dalla sua storia e tradizione culturale, il libero commercio si realizza paradossalmente con una nuova schiavitù e povertà dell’uomo, l’uomo indio. Da qui il suo grido di rivolta che è anche richiesta di riconoscimento e di dialogo.
Nota bibliografica
Per inquadrare l’attuale situazione socioculturale, economia e religiosa degli indios e dei problemi di Chiesa che vi sono connessi nel Messico, consultare i seguenti numeri del SIAL di Verona: 9 (1992) , pp. 16-18; 15 (1992), pp. 7-10; 14 (1992), pp. 16-27; 12 (1993), pp. 1-3 (discorso del papa agli indios); 18 (1993), pp. 5-9; 1-2 (1994), pp. 2-22 (sulla rivolta degli indios – lettera pastorale di mons. Samuel Ruiz).
Breve ma interessante è pure il resoconto Messico: la rivolta dei disperati (intervista al vescovo e articolo di E.Galeano) in “Noticum”, Verona, anno 31°, n. 1, 30 gennaio 1994, p. 3.
(Riprendere dal testo le opere citate di O.Paz, M.A.Asturias, G.Gutiérrez, M.Cayota, il Popolo Vuh. L’opera citata di Gutiérrez apparirà in traduzione italiana presso la Queriniana di Brescia, che ha già pubblicato dello stesso autore “Dio o l’oro”, 1991, sempre su Bartolomé de Las Casas).