La convivialità difficile
Dal rispetto delle differenze al dialogo interculturale
È davvero possibile una pacifica convivenza tra culture diverse? È opportuno andare oltre la tolleranza reciproca e lasciarsi contagiare positivamente da chi è differente da noi?
Non c’è dubbio che all’interno dell’arcipelago di movimenti e associazioni che si richiamano alla solidarietà, al pacifismo, alla cooperazione si guardi con istintiva simpatia e senso di partecipazione ad espressioni come rispetto delle differenze, dialogo interculturale, accoglienza dell’altro. Si vogliono così indicare punti di vista ed impegni che in molti casi costituiscono la ragione stessa dell’esistenza di alcune di queste associazioni e dell’impegno dei loro aderenti. Anche sul piano individuale, quando si cerchi di definire i propri valori di riferimento, la ricorrenza di quei termini dimostra quanto ormai essi facciano parte di una mentalità assai diffusa, pur con tutti i limiti e le incongruenze in cui può incorrere.
Qualora poi, come nel caso di Macondo, l’attenzione sia esplicitamente rivolta ai problemi del Terzo Mondo, tali espressioni si connotano anche di una sottolineatura del valore della giustizia e del multiforme impegno che le disuguaglianze economiche fra le varie parti del mondo suscitano.
Pur tenendo conto delle diversità di approccio, ed anche dei rischi molto frequenti di atteggiamenti paternalistici o addirittura neocoloniali, la cruda realtà della sofferenza umana in vaste aree del mondo colpisce le coscienze e provoca interrogativi seri e prospettive di coinvolgimento a vari livelli. Non avremo mai finito di imparare quanti sono i pregiudizi di cui ci dobbiamo svestire nel nostro approccio alla realtà dei paesi del Sud del pianeta; tuttavia si può notare come la ricerca di un rapporto paritario, sui più svariati piani, sia oggi assai sentita almeno come esigenza.
Probabilmente a molti di noi è successo di considerare come qualcosa di assolutamente chiaro il riferimento alla convivialità delle differenze e di ritenere che, alla realizzazione di un tal fine, sia innanzitutto necessario un lavoro educativo per fare ulteriormente estendere e maturare tale tipo di sensibilità. Nel corso di questi anni la prospettiva di un’educazione alla mondialità e al dialogo interculturale ha compiuto passi notevoli: basterebbe ricordare i convegni, le riviste, l’impegno concreto di migliaia di persone, insegnanti, genitori, educatori, per far crescere questa prospettiva. Sul piano dell’elaborazione, un lavoro molto importante è stato compiuto da diversi enti e centri di ricerca, fra i quali vogliamo qui ricordare la rivista C.E.M. Mondialità di Parma ed in modo particolare l’approfondimento teorico svolto da Antonio Nanni.
La convinzione rispetto al valore di questa prospettiva, e l’impegno con cui viene da molti perseguita, hanno però in taluni momenti rischiato di far mettere in secondo piano anche alcuni elementi problematici che non possono essere sottaciuti, non per rimettere in discussione il consenso all’interculturalità, ma per evidenziare quanto faticosa e complessa sia la strada da seguire. Almeno due fenomeni recenti hanno messo in questione una visione un po’ irenica del problema: l’emergere su scala sempre più vasta delle problematiche legate all’immigrazione nel nostro paese e il dramma della Bosnia, a due passi da noi. Qui non si pretende certo di entrare nel merito dettagliato di due realtà così complesse, oltretutto oggetto di continue attenzioni da parte della stampa, quanto di coglierne alcune implicazione rispetto al punto di vista che ci interessa.
Il nostro io nello sguardo dell’altro
Per molto tempo, nella nostra mentalità e quindi anche nel nostro lavoro educativo e sociale, il termine altro ha goduto di una certa fortuna e simpatia, forse anche per essere stato inteso come sinonimo di lontano: l’attenzione all’altro, alla sua identità, ai suoi diritti spesso negati, aveva come presupposto il dato di fatto che comunque ci si riferiva a popolazioni e culture di altri paesi o addirittura di altri continenti (mentre alla multiforme realtà del disagio di casa nostra veniva normalmente attribuita la qualifica di diversi o emarginati). D’altronde la ricchezza di riferimenti e implicazioni legati al tema dell’altro ha portato, anche da noi, a valorizzare gli straordinari spunti di Lévinas rispetto alla necessità di un riconoscimento dell’altro e alla stessa definizione di sé a partire dallo sguardo altrui.
Oggi però l’identificazione fra altro e lontano non ha più senso: la massiccia presenza sul territorio nazionale di centinaia di migliaia di immigrati dall’Africa, dall’Est europeo e da altre aree ancora, ha fatto percepire quanto vicina sia la realtà di un’umanità variegata e portatrice di valori, modelli di vita e consuetudini diversi dai nostri. La convivenza con questo altro divenuto vicino non è affatto priva di difficoltà e tensioni: molti interventi hanno messo in evidenza la sostanziale impreparazione delle autorità politiche e delle strutture amministrative a gestire un problema di tale portata, ma non c’è dubbio che il problema è anche culturale e che molte delle difficoltà si collocano a tale livello.
Una delle conseguenze del fenomeno è stata così quella di avere spostato in parte l’ambito d’azione di chi si occupa di educazione alla mondialità e alla convivialità: che senso avrebbe realizzare mostre fotografiche e tavole rotonde sul Tibet o l’Amazzonia e poi ignorare che nell’appartamento sotto al nostro sono stipati quindici marocchini?
Se tutto ciò ha scosso una visione un po’ ingenua e semplicistica di approccio alla diversità, d’altro canto ha costituito uno straordinario banco di prova su cui si sono misurati tutti coloro, enti, associazioni, singole persone, che sono concretamente coinvolti nel problema. La convivialità delle differenze si rivela così come un percorso da compiere, motivo di arricchimento reciproco ma anche messa in questione di punti fermi, strada feconda ma della cui difficoltà è bene essere consapevoli, se si vuole concorrere alla realizzazione di quell’uomo planetario che era stata l’ultima grande utopia di Ernesto Balducci.
Banco di prova
L’altro fenomeno attuale che scuote le nostre convinzioni e ci ripropone nuovi interrogativi è il dramma della Bosnia. Non solo e, forse, non tanto per la complessità di recriminazioni che questa infinita tragedia sta suscitando: il senso d’impotenza dei singoli, l’immobilismo della comunità europea, i limiti dell’O.N.U., la rassegnazione fatalistica che d’altronde lascia spazio al traffico di armi. Molti sono gli spunti polemici, ma ciò che maggiormente dà il segno del fallimento è la consapevolezza che per moltissimo tempo la Bosnia era stata proprio un esempio reale di quella multiculturalità che tanto auspichiamo. Per molti decenni, e attraversando vicende storiche assai più grandi, questa regione è stata un modello di convivenza fra etnie, nazionalità, religioni diverse.
L’incredibile vicenda di Sarajevo, in cui abitanti musulmani, croati, serbi ed ebrei della stessa città, resistono da due anni all’assedio senza via di scampo è forse l’emblema di un sogno infranto. A chi scrive era capitato, in tempi antecedenti alla tragedia, di indicare proprio la Bosnia come un esempio di convivialità delle differenze realizzata e non solo auspicata. Ma ora?
La conclusione non vuole certo essere pessimistica, ma tende a richiamare alla consapevolezza di quanto articolato sia il cammino verso una prospettiva di interculturalità. Essa coinvolge, con molteplici intrecci, un lavoro che ha una dimensione educativa, che non può essere sprovveduto sul piano delle scelte politiche, che deve fare i conti con una realtà dell’economia sempre più sbilanciata a favore del Nord ma che non può essere monopolio dei tecnici, infine che coinvolga anche il livello di un dialogo interreligioso.
Su tali temi ci ripromettiamo di tornare in un prossimo articolo.
Franìçois Turcotte, Insegnante presso Liceo-Ginnasio Brocchi di Bassano del Grappa