Viaggio nel mondo della follia brasiliana: il carnevale e il delirio da fame.

di Miola Carmelo e Lazzaretto Monica

È impossibile, e per certi versi rischioso, tentare di tracciare in
poche righe il resoconto di un’esperienza di scambio e di lavoro un
po’ particolare, che potrebbe essere sintetizzata come un viaggio nel
mondo della follia brasiliana.

Il materiale raccolto, le impressioni ricevute,le esperienze vissute
vanno riordinate perché sono spesso caotiche e contraddittorie, come
senza dubbio è la realtà della assistenza sanitaria pubblica e
privata in questo paese. Occupandosi poi di un ambito così
particolare e specifico, com’è quello della malattia mentale, non
c’è da meravigliarsi se tutta l’esperienza vissuta risente di una
accentuazione e, a volte, di una esasperazione dello “stare
con…” e del “sentire” questa particolare forma di
sofferenza dell’uomo.

Difficilmente infatti è possibile incontrare, all’interno delle
possibili espressioni della malattia, uno stato di abbandono e di
degrado simile: ci si trova di fronte ad una sofferenza “a porte
chiuse” sepolta e confinata negli ospedali psichiatrici e nei
manicomi criminali di Rio de Janeiro che non interessa, né tanto
meno preoccupa nessuno, ma solo gli addetti ai lavori.

Per quanto affascinante è quasi impossibile classificare ed ordinare
(non rientra nemmeno nello spirito brasiliano) i possibili profili ed
espressioni della pazzia: il ventaglio infatti è vastissimo e con
valenze complesse e completamente diverse che, in terra carioca,
possono andare dalla “follia” del Carnevale al vero e
proprio “delirio da fame”.

IL CARNEVALE DI RIO

Anche se non è di stretta pertinenza psichiatrica, e rientra più in
un ambito di osservazioni e interesse antropologico, non si può non
soffermarsi almeno un attimo sulla incredibile esperienza del
Carnevale di Rio, durante il quale esplode perentorio per milioni di
brasiliani il fondamentale bisogno di “uscire da sé”, di
affrancarsi per qualche tempo dal riduttivo e categorico “dover
essere” per accedere ad un più eccitante e consono “poter
essere”, una sorta di ek-stasi di antica memoria, dove ci si
abbandona corpo e anima, all’ebbrezza dell’eccesso, della
consumazione, dell’orgia e della danza perenne. (Niente a che vedere
dunque con il nostro grigio, “storico” e contenuto
Carnevale di Venezia, al massimo di berlusconiana risorsa!).

Questo “darsi” tutto al Carnevale è la naturale risposta e
propensione di una struttura di personalità, quella carioca,
fortemente affettiva, che predilige l’escalation emotiva spesso a
scapito di quella razionale. È così possibile trovare forti
sentimenti contrastanti nel rapporto con questa gente: lo strutturato
europeo, ricettacolo del logos occidentale, teme di perdere il suo
primato mentale e di essere assorbito da questo polo di attrazione
contrario, più irrazionale, fortemente corporeo, certamente
effettivamente più coinvolgente.

FOLLIA DA FAME

Di ambito specificamente psichiatrico è sicuramente tutto quanto
riguarda la malattia che esprime disagio e sofferenza psico-fisica.

Quello che senza dubbio può colpire o sconvolgere un medico
psichiatra europeo è lo scoprire che la prima malattia psichiatrica
che colpisce la popolazione brasiliana è un disturbo che certamente
nella nostra società non esiste, impropriamente chiamato: follia da
fame.

Si tratta di un vero e proprio disturbo mentale, caratterizzato da
allucinazioni e deliri simili a quelli dell’alcolismo, unicamente
dovuto alla denutrizione. I soggetti più colpiti sono naturalmente
appartenenti alle classi sociali più povere. La fame più nera
colpisce indistintamente giovani, donne e bambini. In questi casi non
si ricorre ad un trattamento farmacologico, è sufficiente una
alimentazione regolare durante il periodo di degenza. Di fronte ad
una “malattia” mentale di questo tipo appare evidente che
il problema psichiatrico è solo la punta di un iceberg che ha alla
base gravi carenze di ordine sociale.

Il curare e il dimettere questi pazienti diventa un’impresa
impossibile: il terrore di ritornare a patire la fame non motiva
affatto il malato alla guarigione, preferisce infatti rimanere del
tutto soggetto alla vita di reparto che, per quanto malsana e
violenta, è comunque in grado di assicurargli la sopravvivenza,
ovvero il cibo.

Altro grave fenomeno è quello dell’alcolismo, secondo solo alla
follia carenziale, che colpisce sempre e soprattutto i ceti più
emarginati ed “inutili”.

I grandi ospedali psichiatrici pubblici della periferia di Rio
(quelli privati del centro possono tranquillamente competere con le
migliori cliniche europee) sono ridotti così ad enormi depositi di
malati cronici, “senza speranza”, ricoverati ad vitam,
mantenuti da una assistenza pubblica indecorosa: scarseggiano i
farmaci, l’unica iniziativa “terapeutica” perseguita è
quella di tenere in qualche modo i pazienti in vita.

Questi “affidano la propria identità” ad una medaglietta
di latta numerata, vestono un’unica divisa, originariamente forse
bianca, e vagano per queste strutture fatiscenti che ricordano più
le istituzioni penitenziarie che non sanitarie. Fare terapia in senso
psichiatrico in tale contesto diventa davvero drammatico e lo stato
di esasperazione e frustrazione del personale sanitario e medico è
ai limiti.

IL CONFRONTO

Per un medico europeo è insolito incontrare nel corso della sua
esperienza professionale deliri causati da mancanza di cibo; è
comunque raro anche per un medico brasiliano incontrare malattie come
l’anoressia, disturbo mentale quasi sconosciuto nello stato di Rio.

L’anoressia (ovvero il rifiuto sistematico del cibo), è la malattia
psichiatrica che colpisce il più alto numero di giovani donne
italiana.

A questo punto sorge spontanea una constatazione: scegliere di
rifiutare il cibo fino a rischiare la morte è solo una “libertà”
(se esiste una vera libertà nella sofferenza mentale) concessa al
malato di una società del benessere che può manipolare l’assunzione
o meno del cibo al fine di esercitare un ricatto-punizione nei
confronti di sé stesso o delle relazioni significative tenute con il
mondo esterno.

Il delirio da fame brasiliano e il lasciarsi morire da fame europeo
sono i punti estremi di un paradosso psicosociale che lascia un certo
sconcerto e segna i limiti massimi delle possibili distanze tra
questi due mondi che si misurano dalla possibilità o meno di poter
accedere alla soddisfazione di un bisogno primario elementare qual’è
appunto l’assunzione del cibo.