Un’ipoteca sul futuro: la razionalità perfetta

di Stoppiglia Giuseppe

I popoli non rappresentano problema
da risolvere, ma misteri da esplorare,
una totalità da scoprire.
Robert Vachon.

LA CIVILTA’ DELL’OMOLOGAZIONE

Mi hanno chiamato per un corso di formazione, qui, in val d’Astico, nell’Alto Veneto. E’ una giornata piovosa, grigia e triste come generosamente ce le dà l’autunno del Nord Italia.

La valle è imbronciata, cupa, ma la località dove mi trovo, un gruppo di case bianche appoggiato su dirupi scoscesi, sembra un intarsio disegnato da una mano d’artista.

Mi sono seduto all’interno dell’unica osteria per sorbirmi un bicchiere di vino. Come sottofondo debbo seguire i ritmi made USA, delizia delle ultime generazioni, accomunate al di là di ogni frontiera, dal consumo di fast-food.Mi sento scosso da un brivido; possibile che siano arrivati fin qui?

CENTENARI

E’ passato il 12 ottobre, 500° anniversario della conquista dell’America. I mass media e le grandi agenzie istituzionali hanno celebrato, ricordato, rivendicato. Altri invece hanno pregato, alimentato il cocente rimorso per lo sterminio di interi popoli, hanno scritto ed urlato denunce.

Il fatto positivo è questa coscienza nuova di rispetto e di dialogo che sta crescendo in mezzo ai piccoli gruppi, all’interno delle scelte di vita delle persone: piccole fiammelle che nutrono ed alimentano la speranza nel deserto arido del perbenismo e del qualunquismo.

INTERDIPENDENZA PLANETARIA

Ai tempi del colonialismo l’aggressione alla personalità dei popoli è stata barbara, e magari molto spesso il Cristianesimo ha offerto copertura ideologica. Tutto questo però non basta per schierarsi tutti dall’altra parte; non basta a giustificare un’esaltazione tale della dignità delle nazioni, da eludere al dovere dell’interdipendenza.

Il dialogo presuppone che tutti gli interlocutori (occidente compreso) si mettano alla ricerca di un universalismo che serva da connettivo per tutti. Il conflitto è esso pure un esito del dialogo: può essere doloroso eppure altamente creativo.

Mi sono fermato lungamente sulla domanda: “L’uomo non è fatto per la relazione, per il dialogo?”

La domanda nasce sul versante opposto all’esaltazione della ragione, che fonda il suo diritto di essere, di vivere e di agire senza nè ispettori, nè censure, ragione che esige fiducia illimitata nelle sue possibilità.

L’interrogativo significa anche scoperta dei disastri prodotti dall’uso senza legge della ragione.

Il peccato sfrattato dalla coscienza individuale, la quale si copre dietro la sicurezza del diritto, dell’economico, del politico fondati dalla ragione, si incarna e si fa visibile in società sconvolte da disuguaglianze economiche scandalose e dalle guerre (Bosnia, Somalia, Angola, ecc..).

Rispetto al versante in cui l’etica si fonda sul rapporto e sulla responsabilità reciproca pare si sia decisa la fuga all’indietro: in Italia si concretizza nelle corporazioni sociali e politiche (vedi Leghe, autonomisti…) e nel pullulare di movimenti religiosi che cercano di rivestire di dignità e solennità la vergogna della fuga.

PERPLESSITA’ RAZIONALI

L’episodio assurdo e mostruoso dell’uccisione a Bassano del Grappa di un tossico dipendente coricato sul ciglio della strada, da parte di alcuni giovani, ha tolto i veli ad un quadro squallido di omertà, di reticenze e di paure che vede complici tutti, in misura maggiore le autorità civili, religiose, scolastiche e politiche.

In questo caso è sorta la perplessità ad usare la stessa misura giuridica in presenza di un diverso. Il drogato incrina la condizione di uguaglianza fondato sulla ragione: egli non è un vivo, è un morto vivente. E così una morte provocata è una morte non voluta.

Quando penso a questa crisi del modello della nostra società mi piace rievocare la figura sdegnosa di Paolo che vibra: “O stupidi Galati, chi vi ha ammaliati, chi vi ha tagliato la strada?…”

Chi sono i maestri di questi giovani? Chi ha insegnato loro di tornare indietro nel rifugio della propria coscienza rassicurata, ma non disposta al confronto con il diverso; per poi ritornare a colpire ed a condannare il diverso, l’altro che rompe il calcolo economico su cui si fonda la nostra sicurezza futura, ogni volta che “non si può fare a meno” di allontanarlo dai nostri incubi.

Il peccatore contrito che si sente a posto con la norma è responsabile a pari merito di una società ingiusta e assassina. Le catinelle do lacrime versate per la trasgressione ai comandamenti sono valse a cancellare la responsabilità storica e a rimandare tranquilli e pacifici alle loro faccende private e pubbliche i disertori della storia.

A tutti invece corre l’obbligo di assumersi il carico di una convivenza sociale che presenta sempre più i caratteri del disordine

LA PESTE, LO STRANIERO…. ED ALTRI

La peste, coi topi che invadono la città, è già in Camus un’allegoria del male e del dolore che insidiano oscuramente la società, la storia, la vita umana e che ci travolge e ci coinvolge, perché ad ognuno di noi si impone una scelta di responsabilità e di solidarietà rischiosa, perché ogni vittoria, ogni liberazione non è mai definitiva.

Le scelte dei giovani non possono essere più motivate dalla categoria dell’economico, ma dalla realizzazione della personale. Finalmente allora nascerà la solidarietà che non è una virtù, ma un incontro reale fra comunità che vivono in momenti storici diversi, asimmetriche tra loro, come direbbe Levinas.

Non è possibile per i giovani trovare il senso della vita quando si crede che questo senso sia un contenuto della categoria economica. Il senso è contenuto solo nella relazione, ed il dinamismo della relazione è affidato all’apparizione dell’altro asimmetrico.

Lo straniero, il barbaro, quello che noi definiamo con una parola insensata perché troppo pregnante di senso, extracomunitario, cioè essere anomalo, corpo estraneo. La relazione con gli altri, con gli stranieri diventerà il luogo di verifica dei nostri valori, della nostra fede, della nostra cultura.

Bisogna che la ragione si assuma il carico di una connivenza sociale che presenta i caratteri del disordine e non scarichi questa responsabilità su nessuno e nemmeno su Dio.

Nelle favelas del Brasile si continua a morire di fame e a sopravvivere per la tenacia della vita che non si arrende. M ala vita che si affaccia sui volti appassiti dei bambini, sulla distruzione che lentamente diviene, come si dice in termini filosofici, illuminata dallo splendore degli occhi, si può definire vita?

Alcuni amici di ritorno dal Brasile sono arrivati a dichiarare: “Come si fa a credere in Dio, dopo aver visto gli Alagados di Belem o di Salvador di Bahia?”

C’è da restare perplessi. Se l’esperienza nasce dal cuore che ha cessato di battere, attonito davanti allo spettacolo di tanta miseria e di tale crudeltà, l’espressione è comprensibile e degna di rispetto. Ma se viene dall’uomo del benessere, dall’uomo della cosidetta modernità, possiamo dargli il diploma di fariseo ipocrita, perché gli Alagados vengono dopo l’assasssinio di Dio.

NUDO SOTTO LA MASCHERA

Solo quando riusciamo a liberare la nostra storia dalle storie che inventiamo e dalle maschere che la società stessa ci offre per presentarci in pubblico e rimaniamo nella nostra nudità, cominciamo a scoprire nella loro vera dimensione molti nostri atteggiamenti e decisioni: la nostra aggressività e la nostra tenerezza, la paura della separazione e la violenza con la quale ci difendiamo dall’altro.

Oggi in Italia tra tangentopoli, mafia e decreti del governo Amato si respira uno stato di trepidazione, quasi di timore. Improvvisamente ci si è accorti di essere poveri, pur conducendo una vita da ricchi. La flessione del consumismo porterà a trovare l’identità degli oggetti? Non si potrà più comprare quello che seduce, ma quello che è necessario al vivere. Gli oggetti non saranno più il simbolo di un calcolo economico, e dunque portatori di alienazione, ma oggetti vivi, cercati per alimentare la vita.

La società capitalista del potere e del dominio è la grande proiezione della paura, perché rifiuta la dimensione politica. L’accumulo di beni, il triangolo produzione-distribuzione-consumo sono la negazione della politica che è essenzialmente una ricerca di relazioni umane.

L’ISTANZA POLITICA

L’istanza politica è negata mediante la repressione effettuata con le armi oppure con i prodotti che fanno guardare al loro uso con una concupiscenza costante, affinché la persona non guardi nè dentro, nè intorno a sé. Tutto questo fa parte della nostra storia e produce paura.

Questo è il mondo creato dalla nostra razionalità, ed ha definito i limiti che non si possono infrangere, e suggerisce l’idea stravolgente che chi varca i confini non è più un emigrante pacifico, ma è portatore di disordine, e non invece anche il prodotto di un caos più vasto che noi abbiamo almeno provocato.

Il tempo di crisi svelerà l’ipocrisia di quelli che hanno versato lacrime sui bambini scheletrici della Somalia e non accolgono i bambini del Terzo Mondo e dell’Albania che bussano alla porta.

La delusione che mi sta attanagliando è ancora maggiore se penso a quello che succede nell’area religiosa. Gli incontri di preghiera e di spiritualità si sprecano, ed è il fenomeno normale dei tempi di crisi.

L’industria alberghiera degli Hotel della preghiera ha punte di alto reddito. Però quelli che guidano gli incontri perché non incominciano da una meditazione sulla Genesi: “Dio piantò il giardino… e vi collocò l’uomo”. Non si può separare l’uomo dal suo giardino.

Il nostro tempo è popolato di anime buone, spiriti santissimi che vagano in un ex giardino, pieno di rifiuti che imputridiscono. Oh no, amici, non sono scoraggiato, addolorato forse a vedere la mia città Bassano in preda al rancore, ma in giro incontro e vedo tanta bella gente.

Parlare dei giovani è più facile che parlare con i giovani. Ancora più difficile porsi in ascolto. Qualcuno di noi ha scoperto il gusto di camminare con loro. Ebbene scoprirla, conoscerla questa gioventù dà sapore alle giornate, all’aria, al pane.