Dio ti dà il volto, sorridere tocca a te
La rosa senza perché
«Potete chiudere le vostre frontiere,
bloccare i vostri porti e le vostre spiagge,
ma le canzoni viaggiano a piedi, in segreto, nelle anse dei cuori.
Sono le madri che le insegnano ai loro bambini che le ripetono.
Finiranno per esplodere sotto il cielo della libertà».
(Yves Duteil)
«I maestri aprono l’uscio,
ma devi entrare da solo».
(Proverbio cinese)
Quel si bemolle stonato
Antonio Martins de Araujo si guadagnava da vivere facendo l’orefice, ma era nato musicista. Quindi era giusto che lo chiamassero Maestro Antonio. Tanto forte era la musica nel corpo del maestro Antonio, che i suoi figli, tutti e sei, nacquero musicisti. Ritengo che questa coincidenza si debba al fatto che il maestro, nel momento supremo dell’atto d’amore, stava sognando qualche musica. Violino, clarinetto, flauto, mandolino, chitarra, violoncello formavano una bella orchestra domestica. E questa era la felicità suprema del maestro: vedere i figli uniti, intonati, che suonavano sotto il comando della sua bacchetta.
Gli spartiti del maestro Antonio fecero, però, una brutta fine. Dopo la sua morte, il baule nel quale erano conservate le sue composizioni fu trasferito nello scantinato oscuro di una vecchia casa colonica. Qualcuno lasciò aperta la porta dello scantinato: entrò una capra ignorante di musica e divorò le composizioni.
Invece la morte del maestro è stata bella. La sua città, Goias Velho, come tutte le città brasiliane antiche di tradizione culturale, aveva un bel palco fisso dove suonava la banda municipale.
Dalla stanza del maestro Antonio, malato di cancro, agonizzante, si udiva la banda suonare. Ecco che improvvisamente il maestro, fino allora assopito, si agita e fa cenno di voler parlare. Tutti si avvicinano attenti. Uno dei figli gli tiene il capo sollevato. Egli balbetta in agonia: «Il clarinetto ha stonato nel si bemolle». Dette queste parole rende l’anima a Dio. Non poteva permettere che la sua morte fosse turbata da un si bemolle stonato.
Il Signore per ultimo
«Mio caro, la parrocchia mi è caduta sulle spalle: aiutami a portarla. Quindicimila anime vestite di un corpo piuttosto esiguo; ricche in compenso, di moltissimi sentimenti, non precisamente ortodossi e amorevoli. Vivono in tuguri rabberciati alla meglio, dalle mura precarie sempre in pericolo, con tetti di bandone, dormirci sotto, quando piove o grandina, è un amore. L’igiene, per molti è una leggenda, il lavoro un rischio, il pane avventura d’ogni giorno. Riguardo a Dio, non c’è gran che da dire, se ne ricordano nelle occasioni d’emergenza e con innegabile dimestichezza: quasi sempre per pregarlo poco e per bestemmiarlo assai. Ho cominciato le visite alle famiglie. Ogni casa, un’avventura. Ho le spalle buone ma il cuore mi scricchiola sotto questo peso, anche se è un peso che non si vede. Prega perché non si rompa».
Con questa lettera p. Mosè mi ha comunicato che l’hanno fatto parroco. La tegola che da mesi temeva e desiderava nello stesso tempo, gli è arrivata sulla testa in questi giorni. È finita la libertà di vagabondo di Dio. L’hanno confitto nella palude nebbiosa della periferia. Non ne uscirà più. Lo sa. Quando si alza di prima mattina, non vede dalla finestra né alberi, né campanili. La natura della periferia è livellata e grigia come gli uomini della miseria che gli sono toccati in sorte. Tra quella nebbia egli dovrà pescare, inseguire, rubare qualche anima, ogni tanto respirando solitudine e diffidenza.
Sono convinto che dimagrirà. Tuttavia, egli non ha perduto ancora quel fare da ragazzo disattento che l’accompagna in ogni cosa. Sulla facciona rotonda, s’affacciano occhi inutilmente impegnati a dimostrarsi burberi e non c’è verso che intorno alla bocca nasca una ruga. Se non lo conoscete, non vi potete fare un’idea di come sia buffo questo pastore di anime con la faccia da bambino. La voce leggermente roca, ma forte e calda. Egli deve controllarla spesso, addolcirla come meglio può, specialmente quando l’avversario ha torto.
P. Mosè non ha chiesa. Incastrato fra le catapecchie, un garage irregolare e non certo olezzante, somiglia alle case che lo circondano. Dentro, come un disoccupato qualunque, ci passa i giorni il Signore. Un Signore alla buona, che si accontenta di un lumino minuscolo e non ha neppure un lampadario di quelli che splendono nelle chiese del centro. Quando piove, c’è musica anche sul tetto del Signore, poiché anche lui ha il suo bravo tetto di bandone e basta.
Avrei voluto esserci, quando p. Mosè ha fatto l’ingresso da parroco. Incredibile: quel giorno aveva tutte le insegne. Si trovava evidentemente a disagio: non l’hanno mai visto così goffo.
In una tale chiesa ha parlato alla sua povera gente in veste di parroco. «Mi hanno buttato in mezzo a voi e dobbiamo andare d’accordo per forza. Sono sicuro che ci dobbiamo voler bene: il vostro bene non ve lo chiedo finché non me lo sarò meritato. Qui non potete lamentarvi: casa non ne avete voi e neppure il Signore, lo vedete, ce l’ha. Né io né voi siamo ricchi, ma sento che saremo uniti, se pregheremo e lavoreremo assieme, potremo cominciare anche a fare la casa a quelli tra voi che ne hanno bisogno. Lasceremo il Signore per ultimo, lui ha pazienza».
Dopo la prima diffidenza i cuori si sono schiariti. Ha cercato lavoro ai disoccupati, ha portato di nascosto il suo mangiare ai bambini più pallidi, ha giocato a pallone coi giovanotti, ha passato ore della notte al capezzale dei malati. Non si è mai lamentato di nulla, non ha mai parlato male di nessuno. Quando non ha più avuto niente da dire e da dare, è tornato curvo, nel garage, mostrando al Signore le enormi mani vuote.
Senza sogni la notte è buia
Teresa, 19 anni, abita a Lamezia Terme, in Calabria. Ci siamo conosciuti alcuni mesi fa, in un incontro sull’intercultura. Siamo rimasti in contatto e ieri mi è arrivato il suo ultimo messaggio.
«Nel suo intervento, citando Bergson, lei ammoniva con forza noi ragazze e giovani del Sud dicendo: ‘La rassegnazione non è che un orientamento verso il passato, un impoverimento delle nostre sensazioni e delle nostre idee, come se ciascuna di esse stesse ora tutta intera nel poco che dà, come se l’avvenire si fosse in qualche modo chiuso’. Aggiungendo, subito dopo: ‘La ribellione, però, resta comunque un ‘incidente’ e non incide granché nel tessuto del futuro’. In questo momento io sono confusa. Non riesco a decidere se mi devo conformare alla realtà o ribellarmi. Ma contro chi? Forse contro gli insegnanti, che sono senza sogni e non sono in grado di rispondere ai nostri silenzi? Forse contro i politici che pensano principalmente al profitto personale e non ai cittadini, togliendoci le speranze in un avvenire migliore, le aspirazioni, la dignità, l’amore alla vita stessa? Forse contro i commercianti che fanno affari d’oro, sfruttando le commesse? Le sembra giusto continuare a subire questi soprusi e giocare sulla disperazione dei cittadini?».
La cosa più terribile del sud, ma di tutti i Sud del mondo, sono le lettere come questa, dove l’alternativa è come una tenaglia che chiude e strozza.
Perché, chi si ribella alla realtà, ha la sensazione di perdere; se invece si conforma, perde ugualmente, o comunque perde quello slancio vitale che all’attesa preferisce la speranza.
Quando infatti l’attesa diventa senza oggetto si trasforma in disperazione o, peggio, in rassegnazione. E allora quello slancio giovanile che mette avanti il sogno alla realtà, affinché qualcosa si possa realizzare, si spegne. Quando si spegne un sogno, la notte si fa più buia.
Cosa fare per impedire che i sogni dei giovani del Sud si spengano? Penso sia giusto stimolarli a muoversi, prima dentro e poi fuori di loro, non come capita ai giovani del Nord nella direzione presente-avvenire, ma in quella più coraggiosa, stante la loro condizione, indicata dalla direzione avvenire-presente.
L’avvenire che vogliono realizzare deve condizionare il loro presente, farlo esistere in un altro modo, e mentre i loro amici del Nord guardano il presente come ciò che costruisce l’avvenire, i giovani del Sud devono fare il contrario, devono fare dell’avvenire che sperano, la base per la costruzione del loro presente.
Speranza e desiderio
Non è facile, lo so. Ma se la tenaglia chiude senza speranza, loro la speranza la devono salvare dalla morsa perché, in ordine all’avvenire, la speranza va più lontana dell’attesa. Nelle loro condizioni, guai a chi si ferma all’attesa, dove l’avvenire viene verso di me, ma io non vado verso di lui.
A differenza dell’attesa la speranza allontana da noi il contatto immediato con l’ambiente deprimente, e non dice cosa posso attendere da questo ambiente, ma cosa posso fare al di là di questo ambiente.
«L’attesa – scrive Umberto Galimberti – non ha mai avuto efficacia nel tessuto dell’avvenire. Assomiglia ad un ripiegamento su se stessi, ad un accartocciamento, con l’unico scopo di esporre il minimo di sé all’opacità dell’ambiente. La ribellione è il suo contrario, è il prendere fiato per un giorno, dice solo ‘no’, ma non innesca un ‘sì’ perché non crea. E per creare occorre una dose pazzesca di desiderio, nutrito di speranza».
Ho tentato di far parlare i volti, ascoltandoli con umiltà. Ho cercato di raccontare storie vere di uomini e di donne che hanno scelto di vivere la propria esistenza come dono. Ho voluto ascoltare la vita di chi fatica ad esprimersi perché bloccato dalla mancanza delle condizioni essenziali.
Lo stupore negli occhi e nelle mani
Per nascere e svilupparsi, la vita ha bisogno di un universo morbido di tenerezza.
Il pregiudizio, la violenza, l’isolamento, la miseria, la chiusura sono le principali cause che impediscono il suo dispiegarsi nelle diverse potenzialità. (Mario De Maio)
Christian Bobin a tale proposito aggiunge: «La verità è ciò che arde. Essa non è tanto nella parola definitiva, è negli occhi, nelle mani, nel silenzio. La verità sono occhi, mani che ardono in silenzio».
La nostra epoca ha perso l’ansia della scoperta, il fremito della ricerca e il coraggio di andare oltre?
Soltanto chi è ancora capace di stupirsi è pronto alla partenza, pronto all’ascolto. L’altro non è mai scontato, la vita di ciascuno è sempre nuova.
In questo i bambini sono maestri. Non sono vittime di quella malattia che fa soffrire gli adulti e che si chiama ‘mancanza di senso della vita’. Gli adulti non si accontentano di vivere il quotidiano, essi vogliono capirne le ragioni. Ignorano la poesia del mistico Angelus Silesius: «La rosa è senza perché: fiorisce perché fiorisce, a se stessa non bada, che tu la guardi non chiede», ed esigono ragioni sulla propria missione nel mondo.
Il bambino non pone mai simili domande. Giocare con l’acqua, giocare con la trottola, far volare l’aquilone, giocare a mamma e papà, queste piccole gioie bastano ai bambini. Sono ragioni sufficienti per vivere. Per questo sono felici.
Nietzsche diceva che egli amava le persone che non hanno necessità di guardare dietro le stelle per incontrare ragioni di vita: il bambino, infatti, non cerca ragioni dietro le stelle.
Pove del Grappa, febbraio 2006