Viviamo come plebe sugli spalti del circo

di Stoppiglia Giuseppe

La morte abita altrove

«- c’è un tempo
per scagliare le pietre
e c’è un tempo
per raccogliere le pietre-».
[Qohelet 3,5]

«Quando ti ritrovi solo in mezzo
a tanta gente, cerca un po’ di silenzio
nella tua quiete profonda.
Vedrai la tua pienezza interiore
riempirsi della compagnia di te stesso,
perché di colpo ti troverai colmo di cultura
e di storia gialla, nera e bianca del tuo
essere globale».
[Ndjack Ngana]

Dolore e morte

«Separarono gli uomini con la scusa di convocarli per una riunione, in cui discutere come si deve sviluppare il villaggio, li chiusero in un locale. I soldati poi riunirono le donne e i bambini, di tutte le età, nella chiesa. Lì l’esercito inizia a sparare sulle donne. Le sopravvissute sono separate dai bambini e portate a gruppi nelle case, dove vengono assassinate a colpi di machete. Più tardi si uccidono i bambini. Ci sono testimonianze concordi di bambini sventrati a colpi di coltello o sfracellati con la testa contro il muro.
Segue un breve riposo.
Poi i soldati cominciano l’esecuzione degli uomini. Li fanno uscire uno ad uno, legano loro le mani, li gettano al suolo e li fucilano. Il massacro continua per un’ora e termina con il lancio di granate contro le case. I responsabili del massacro sono 660 soldati capeggiati da sei ufficiali».
(Massacro di S. Francisco. Dal rapporto sul Guatemala, voluto da J. Gerardi, vescovo cattolico, assassinato il 26 aprile 1998, Guatemala Nunca Mas, La Piccola Editrice).
Credo sinceramente che valga la pena di raccontare queste storie. Fanno giustizia della storia degli uomini. Vita e uomini non esemplari, ma reali. Dolore, morte, destino e disgrazia sono reali come la gioia, la vitalità, la fecondità, l’amorevolezza e la fortuna.

L’inferno esiste solo
per chi ne ha paura

Chi riesce a prendere la propria vita nelle sue mani sa anche che la vita è più grande di lui e delle sue intenzioni. Sa che il destino può essere un elefante troppo pesante e troppo innocente per potergli resistere.
La predicazione cristiana sulle grandi questioni esistenziali si è incentrata tradizionalmente sui “Novissimi”, in cui il tema della salvezza si intreccia con lo spettro della possibile ed irredimibile perdizione. Un cantautore, irriverente eppure a suo modo religioso, come Fabrizio De André, ricordava che «l’inferno esiste solo per chi ne ha paura».
Per me, invece, l’inferno evoca la vita e la morte di otto decimi dell’umanità. Io appartengo a quei due decimi che hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per approntare su questa terra un inferno che altrove non esiste, e se esiste è vuoto e senza luogo. Io ho paura di questo inferno e ho paura di me che non ho fatto nulla ancora di veramente concreto perché sia allontanato dall’orizzonte dell’umanità. Di questo mi verrà chiesto conto davanti a Dio.
Il tema della sofferenza e della morte nella nostra società è diventato tabù. Disturba.

Rimozione o irresponsabilità?

Credo che viviamo non nel mondo della rimozione, ma nel mondo dell’irresponsabilità. Cresciamo. Invecchiamo. Decidiamo (qui da noi non si muore, si decide; la morte appartiene alle tragedie dell’altrove) servi dell’irresponsabilità nei confronti di noi stessi, della nostra specie, del creato.
Questo perché? Perché venga confermato un sistema politico ed economico che fa dell’irresponsabilità delle proprie azioni la natura stessa della sua esistenza e della sua prosperità.
Viviamo come plebe esente da doveri che non siano le servitù al sistema. Se compriamo abbastanza, lavoriamo abbastanza e votiamo abbastanza chi si autocandida a possederci, null’altro ci può essere chiesto. Nulla di più è bene che noi chiediamo per noi stessi e per gli altri.
La morte deve stare altrove, dove non è possibile raggiungerla materialmente. Di volta in volta ci vengono mostrate immagini della morte perché se ne traggano lezioni edificanti a conferma della bontà della nostra servitù e della nostra irresponsabilità. Consegnare un paio di scarpe usate alla “Missione Arcobaleno” basta e avanza ad esentarci dalla responsabilità di generare ecatombi.

Nel silenzio senza
angoscia del nulla

Pove è un piccolo paese all’imboccatura della Valsugana, adagiato ai piedi del Grappa. Lì sono nato e ho vissuto la mia infanzia, la mia adolescenza e gli intervalli dell’itinerario del seminario; vi riconosco, non in modo nostalgico e retroattivo, bensì di prospettiva, le mie radici.
Nel piccolo cimitero collocato in una posizione suggestiva, circondato dalle montagne, sono sepolti mio padre, mia madre, i miei quattro nonni, il sacerdote che mi ha battezzato, gli zii, altri parenti e conoscenti.
Quando riesco a risalire la mia valle, la sosta di meditazione e di preghiera in quel luogo è una necessità intrinseca. Ripensare a quelle vicende umane, al loro significato profondo, alle relazioni vissute, all’amore, all’impegno, al sacrificio, al segno che hanno lasciato, al seme che hanno collocato nella storia, pur vivendo in una piccola comunità, diventano intensità e pedagogia alla vita-; il cimitero diventa luogo antropologico e teologico per la vita. C’è attorno un silenzio che è la pace data dal ritmo dell’amore: un silenzio senza angoscia del nulla, “in presenza di Qualcuno”. È un atto di nascita.
I mass media producono un’inflazione di parole, al punto che “la parola” perde il suo significato specificamente umano, si svuota, si consuma fino ad esaurirsi al suo mero valore strumentale. Anche la comunicazione perde così il suo carattere umano e si meccanizza, diventa impersonale flusso elettronico di dati. Ecco che il silenzio, su questo sfondo, acquista tutto il suo potenziale umano e liberante.

Il grembo della parola

«Il silenzio … afferma Paolo Marangon … è lo spazio dell’interiorità, la via che conduce al cuore di noi stessi e delle cose. Il silenzio è il grembo della parola: la parola procede dal silenzio, esprime il silenzio e ritorna nel silenzio. Solo le parole che riposano nel silenzio comunicano, le altre informano o alienano».
Il silenzio è perciò la pre-condizione necessaria e imprescindibile per scoprire il senso della vita e della morte. Personalmente credo che l’amore del potere nasca in fondo proprio dall’ossessione e dalla paura della morte. La paura delle cose che passano, che finiscono, che sbiadiscono. Di fronte all’angoscia che ci procura il presentimento della possibilità della morte, nostra o delle persone amate, ci sono diversi atteggiamenti possibili.
C’è il sentimento religioso, vissuto, in questo caso, come consolazione, come lenitivo che calma l’angoscia, immaginandosi un aldilà, una vita oltre la morte. Oppure c’è la tentazione di non guardare, di volgere lo sguardo: di allontanare da sé quell’ombra oscura e con essa l’idea stessa della fine.
Da ultimo, ma è di pochi, si può scegliere di guardare, di interrogare la morte, il lutto, la separazione.

La morte è fragilità

La morte, se guardata fino in fondo, ci dice una cosa sola: fragilità. Gli uomini in genere non amano la fragilità. Non riescono a sopportare il consumarsi delle cose, il venir meno della vita. Non riescono a sopportare il silenzio del vuoto, la carica urticante dell’assenza.
La ricerca affannata che certi uomini fanno del potere è un esorcismo contro la morte e la fragilità della vita.
Si può rispettare questa fragilità, imparare ad amarla, metterla al centro del proprio modo di pensare e di agire, al centro del proprio modo di vivere e di valorizzare le relazioni. Si può, infine, trarre forza e determinazione da questo riconoscimento. In questo caso il potere perde molto del suo fascino. Perché far leva sul potere non è il modo migliore per rispettare e creare bellezza nel fragile tessuto delle vita e delle relazioni.
Un esempio illuminante di autenticità umana derivata dalla riconciliazione con la morte, quale momento intrinseco del vivere, è Francesco d’Assisi, l’uomo senza paure: né di se stesso, né degli altri, né di Dio, né della morte, considerata sorella. Niente da difendere, nessun aspetto da nascondere; nessun essere umano, nessun essere vivente identificato come minaccia, come nemico da attaccare: una riconciliazione completa.
In questa nostra epoca è però molto difficile, soprattutto per tre motivazioni ingombranti e pericolose. La prima è l’assolutizzazione della soggettività come individualismo che non accetta il confronto con gli altri, con il bene comune, temendoli come limitazione per sé. La seconda: la realizzazione personale senza alcuna verifica etica. La terza: il protagonismo vincente. Tutte e tre rendono difficile l’accettazione del limite, della malattia, della sofferenza, della morte.
L’uomo onnipotente ed onnisciente non iscrive nelle possibilità la morte: presume illusoriamente l’immortalità.

Misericordia e speranza

Esiste e si crea in alcuni una situazione contraria: il trapasso d’epoca, le profonde trasformazioni, le difficoltà a trovare riferimenti significativi, le delusioni personali, relazionali e storiche accrescono il senso del limite, della fragilità, del vuoto che sfocia spesso nel non senso, in una sorta di nichilismo nel quale la morte è piuttosto indifferente o invocata e cercata come soluzione.
Purtroppo l’attuale cultura non è in grado di misurarsi umanisticamente con tale dimensione. Ignorando il dovere della responsabilità, ignora pure la virtù civile e cardinale della misericordia. Misericordia per la vita e per la morte, la nostra e degli altri, degli umani e del creato intero.
Per gli uomini e le donne che accettano la responsabilità, c’è bisogno della speranza- e la speranza è già redenzione. Credo che i cristiani di Timor Est, i musulmani del Senegal, i marxisti della Colombia e i buddisti del Tibet siano ricchi di speranza e in via di redenzione già prima che la morte offra loro un’opportunità di verifica ulteriore.

Tastare l’orizzonte,
nel mattino

Esco di primo mattino e l’aria fresca mi avvolge.
Riscopro il volto delle cose, dei fiori, degli alberi, sotto il gran cielo assorto. La poesia e la spiritualità del quotidiano. «Aprirsi … diceva Capitini … è come pregare».
Svuoto la mente da ogni pensiero negativo, poi da ogni pensiero tout court. Mi concentro sui dati immediati, elementari, dei cinque sensi.
Provate a farlo anche voi in montagna o in riva al mare, nei giardini pubblici o sulla terrazza di casa. Scioglietevi nel soffio che giunge alle vostre narici – odore di pino, di salmastro, di caffè o di bucato – nel vento che accarezza la vostra pelle, nel cinguettio degli uccelli e nello stormire delle foglie, nella vela lontana o nel profilo dei monti o nel bimbo che gioca- e diventerete voi stessi queste cose, vi sentirete uno col tutto e nell’unità del tutto, sentirete la trascendente presenza dell’invisibile divinità. Soprattutto non amareggiatevi per i milioni che non avete… mettiamoci assieme alla finestra a guardare le stelle: sono miliardi… e sono tutte nostre.
Per stare sulla strada sento che ho le gambe abbastanza buone. Non ci vedo moltissimo e l’udito è diminuito un po’, ma non manco un giorno dopo l’altro di tastare l’orizzonte per sentire se per caso si è allargato abbastanza per farmi passare. Per valicare a modo mio la ristrettezza.
Che siamo nello stretto, lo sappiamo, ma è qui che rimango. Il mio viaggio ancora non l’ho finito e sento che la vastità di questa nostra epoca io non l’ho toccata.
Amici, sarò sul ciglio, vi sentirò passare e mi vedrete.

Pove del Grappa, maggio 2000