La politica interprete di un destino comune
«… Ogni forte manifestazione di potenza esteriore,
sia di carattere politico che di carattere religioso [produce]…
una privazione dell’indipendenza interiore dell’uomo,
sopraffatto dall’impressione che su di lui esercita
la manifestazione della potenza, tanto da fargli
rinunciare – più o meno consapevolmente –
alla ricerca di un comportamento suo proprio verso le situazioni
esistenziali che gli si presentano».
[Dietrich Bonhoeffer
Dieci anni dopo, Natale 1942]
Può la politica “fare silenzio”? Ascoltare i silenzi delle città è cercare contatto con ciò che nel silenzio s’esprime, si nasconde, si riserba: il dolore e il nascere, il resistere nelle prove e la fedeltà, la cura e il disorientamento. Ciò che è gemito di vita e ciò che è fremito di vita abitano il silenzio. Grande battito della vita, personale e sociale.
Un diverso rapporto con il potere d’una politica non ideologica chiede una capacità della parola politica di farsi carico di un attraversamento-riconoscimento dei silenzi e delle ombre della città. Di farsi costruttrice di soglie per l’incontro là dove la vita è più evanescente e i diritti sono più infragiliti.
In questo grande bisogno, “drammatico” bisogno di politica, “si resiste”, si è “eccedenti”: qui il realismo paradossale di chi ha fede!
Questo uomo, questo mondo, han bisogno che li si ami, che li si sveli a sé, li si apra da dentro; che la politica del comune destino si sveli come la politica per l’uomo.
Da diverso tempo specie dopo il crollo dei muri e ideologie, I’azione politica pare, invece banalmente, intendere la coscienza delle persone come “una sorta di escrescenza soggettiva o emotiva, cresciuta sopra le leggi economiche e i sistemi di informazione” (per usare parole dell’ultimo Balducci).
Rappresentare o interpretare
Forse è tempo che sulla scena politica si presentino persone capaci non tanto di rappresentare quanto di interpretare.
La rappresentanza si è andata sempre più marcatamente esprimendo come legata a bisogni o interessi presi “così come sono”. In scambio, in competizione. Oppure legata a un territorio, oppure, ancora, a una rivendicazione.
Tutto ciò è, certo, per certi aspetti inevitabile e anche legittimo.
Ma interpretare è altro. “Farsi interpreti”, anzitutto. È capacità di sintonia con le persone, e un contesto sociale, nelle loro contraddittorietà e ricchezze, anche nei loro conflitti interiori e nelle loro ambiguità, oltre che nelle ansie e nelle speranze. In servizio e in ascolto, capaci di individuare linee di progetto e consenso cui chiamare persone intere e non ruoli o domande specifiche.
Persone intere, e comunità che nel progetto di costruzione di relazioni sociali e con le cose, si ri-conoscono, decidono di sé e del loro stile di vita. Vengono svelate e, insieme, possono darsi spazi di libertà e responsabilità in riprogettazioni.
Ci vuole amore, pazienza, pietà. Per sé e per l’uomo
E gusto di avviare a convocare persone e gruppi a una narrazione personale e comune dentro il tempo del vivere, e dentro i tempi sociali, conoscitivi, economici, legislativi, pedagogici.
Una realtà di relazioni funzionali e di relazioni polari è una realtà senza luoghi per il riconoscimento, per l’incontro. Senza soglie sulle quali l’incontro tra donne e uomini è scoperta, pratica, dell’obbligo. Dell’assumere la consegna dell’altro.
Perché si dia il riconoscimento, e con esso la capacità-possibilità di rappresentanza, occorre definire tali soglie. Sia nei luoghi istituiti, ad esempio le scuole, sia nelle realtà dell’aggregazione informale.
È una strategia pedagogica e sociale, dall’alto valore politico. Che si muove in due direzioni: nella de-saturazione delle istituzioni, nella ri-composizione di contesti locali-globali.
Confini e zone d’incontro
Definire qui le soglie serve anche per evitare intrusioni o pressioni indifferenti che sanciscono dipendenze, come per evitare estraneità e in-differenze, che sanciscono separazioni. Non ci sono soglie per incontri nei quali sia garantito il parlarsi aperto e, insieme, il rispetto e il pudore se gli spazi sono troppo pieni, i ruoli rigidi e se non c’è tempo.
Nelle scuole, nelle istituzioni, nei luoghi aggregativi e associativi, le soglie vanno definite, ma, soprattutto, aperte.
Ben utilizzando crepe e interstizi, spazi per un agire per patti e progetti.
Le soglie sono, invece, da “costruire”, da definire nei luoghi più informali. A volte di puro incrocio di un vagare. Come le strade, le piazze, i bar, i locali. La strada non definisce alcuna soglia, è ambito nel quale tutti possono avere accesso e per questo dà l’illusione di poter costruire relazioni più “facilitate”, più “liberate”. Ma dove non c’è soglia manca pure il controllo della distanza nella relazione, e questo può portare alla negazione di qualsiasi relazionalità. Soprattutto senza soglia c’è il pericolo di intrusione, di violenza, non c’è pudore, né difesa.
Individuare dei limitari sui quali poter fare un passo nell’incontro, in una comunicazione responsabile (individuare un interesse, fare un video, fare musica, raccontare, …) con il diritto riconosciuto di accogliere o rifiutare, può rendere i locali o i luoghi di ritrovo, o le piazze e le strade meno opachi, meno generici. Senza soglie le relazioni sono spesso o solo formali o solo reattive.
Direi che la sera al parco, o per la strada dove vivono tante biografie dell’abbandono, noi vediamo piena assenza di soglie anche nella incredibile capacità di entrare e di uscire senza rispetto dai tempi e dalle cose, e anche dai corpi di giovani donne e di giovani uomini della città. Senza soglia, e estremamente lontani da ogni forma di incontro.
Ricostruire degli spazi comuni dentro la città è anche rendere raccontabili le storie: con i video, con i racconti, con le feste, con gli spettacoli teatrali, con i rapporti di ricerca degli studenti delle scuole superiori. Aprire questi spazi comuni attorno a cui la città può far coalizione, spazi del riconoscimento reciproco, della relazione sociale, significa rendere la città fisica, e anche quella dei ruoli, delle relazioni, delle presenze, un paesaggio abitabile. Allo stesso tempo questo è possibile se insieme diventano paesaggi abitabili quelli interiori, quelli che si dilatano e si arricchiscono grazie a questo incontro, anche a questo incontro, reso possibile con sé.
Un’esperienza per la propria interiorità
Occorrerebbe, per questo, vivere la politica come esperienza ricca per la propria interiorità, mentre, prevalentemente, pare praticata come attività segnata da competenze e abilità, con labili riferimenti a senso e fine umano.
Può la politica essere luogo del silenzio interiore; dell’ascolto attento, quello che sa rilevare, riflettere, soprattutto riconoscere? Servono movimenti interiori, oltre che giocati nell’esteriorità della relazione (dove invece la politica tende a “spiegare”, o a “risolvere”).
Movimenti interiori capaci di cogliere ritmi e attese, sogni non detti, affidamenti.
Se si è persone che si ritrovano solo nell’esprimere, attraverso gesti e parole (autori e attori con “signoria”) allora “il silenzio è il segno terrificante del vuoto”. Così lo si vive sul margine del nulla: e allora ogni frastuono o lagna è preferibile.
Un piccolo libretto sul silenzio, di qualche anno fa, frutto di dialoghi sul limitare, offre tracce preziose. Si parla di un silenzio che si oppone “al silenzio della morte”, al mutismo. Di un silenzio che è lasciarsi interiormente riposare, “in una sospensione che lascia l’essenziale del rapporto con la parte di sé con cui si è in pace; e che permette una ri-costruzione, un cammino ulteriore biografico, un lasciare e di nuovo riaprire il cammino”.
C’è anche un silenzio esperienza positiva: dove resta un battito e un ritmo (come del cuore, del respiro). Si torna “al ritmo della vita elementare”, “all’interiorità di questo ritmo”, quando il silenzio ha un ritmo. Dentro il farsi e il modularsi dei giorni, delle cose, delle scadenze, si può dare, a volte, che il ritmo (come del cullare, della ninna nanna) crei il silenzio e la sua pace. Si dà, tra noi, un silenzio “in presenza di qualcosa”, senza angoscia del nulla.
“Ritorna il pulsare della vita”: palpito irreale e permanente. Regolarità: “ci ascoltiamo, finalmente, ci ricordiamo di essere in vita, noi stessi”. E il ritmo accoglie la variazione, il silenzio vivo accoglie le parole, come possibilità che nasce dal silenzio.