Salvaguardare l'”umano”

di Demarchi Enzo

Ricordo le passeggiate col nonno, alla scoperta del mondo favoloso dei dintorni del mio paese. Orti, campi, piccoli canali, fossi, mormorio d’acque tra il verde di prode erbose, cespugli, piante… ma di quelle passeggiate ricordo soprattutto il silenzio del nonno. Era un silenzio che faceva stranamente eco al silenzio stesso della natura, pervaso di voci misteriose: sorgeva davanti ai miei occhi stupiti, al mio cuore pieno di segreta emozione il mondo della creazione, delle cose semplici ed umili di sempre che il nonno mi additava con un piccolo cenno della mano, della testa, degli occhi, un “oh” di meraviglia. Sentivo quello stupore originario dell’esistenza del mondo che, da adulti, suggerisce riflessioni apparentemente banali, del tipo: «Come è straordinario che esista qualcosa!», e sono invece rigorose riflessioni filosofiche (L.Wittgenstein).

«- Pietre – Non è che le pietre siano mute: – stanno solo in silenzio. – Albero – Libro verde – albero poeta – quanta poesia nelle tue foglie! – Chiunque – si posi sui tuoi rami – diventa cantore. – Il vento – Il vento balla, – stende le sue ali e gira. – Il vento è un uccello grande, – vola alto – al di sopra del cielo; – per questo – sentiamo solo il soffio delle sue ali». (poesie dell’indio Humberto Ak’abal, pubblicate su SIAL, n°7, 1997).

Resurrecturis
Del nonno ricordo, sì, alcune parole. Passando accanto al cimitero, mi faceva compitare l’enigmatica scritta sul frontone d’ingresso: “Resurrecturis”. E mi spiegava – aveva fatto il ginnasio, a quei tempi! – cosa volesse dire: «per quelli che risorgeranno». Era il luogo dei dormienti che un giorno si sarebbero destati e rialzati. Quel luogo di silenzio, avvolto di tanti discorsi tristi e di tante paurose immagini, diventava un luogo di misteriosa pace. Come un seme gettato sotto terra. Anche loro, i morti, vengono seminati e alla fine germogliano… Un seme sotto terra. Buio e silenzio. Ma quale fervore segreto e quanta attesa!…
Incontrare una persona è ritrovarsi di fronte (in-contro) e insieme a un altro. Ritrovarsi in due, senza confondersi. Accogliersi e sentirsi accolti, non sentirsi giudicati. Scoprire la garanzia della propria inviolabile interiorità in quella altrui. Due mondi che non si invadono, che non diventano “oggetto” l’uno dell’altro, non si strumentalizzano. Ci vuole talvolta molto tempo per incontrare una persona… «Porsi in atteggiamento contemplativo vuol dire saper attendere… L’atteggiamento contemplativo deve permettere, a chi non c’è abituato, di essere accolto per quello che è, senza secondi fini… Porsi nell’atteggiamento di chi sa ascoltare tutto senza giudicare (la persona)» (Michel e Colette Collard-Gambiez, Un uomo che chiamano CLOCHARD, Ed. Lavoro/Esperienze/Macondo libri, 1999, p. 34 ).

Rivelazione
L’incontro è quasi sempre caratterizzato da rivelazione. Non quella contenuta nelle Scritture religiose, almeno non solo e non prima di tutto quella, ma la rivelazione che avviene originariamente tra due persone che comunicano in maniera autentica tra loro. Non si conosce una persona osservando, studiando, accumulando montagne di dati e schede. Nessun cervellone può far conoscere una persona. È la parola (comportamento, gesto, atto intenzionale, silenzio) che rivela la persona, svelando ciò che ha dentro e velandolo di nuovo (duplice significato di ri-velare). Nessuno conosce il proprio “volto”, quando lo vede allo specchio lo sente istintivamente quello d’un estraneo. Il nostro volto è fatto per essere conosciuto da altri: è appunto “volto” (rivolto) ad altri. Come dice Giuseppe Stoppiglia, «tutto è precario, tranne la relazione». L’interiorità si vive nella relazione, che diventa rivelazione: un segreto che fa comunione con un altro segreto.
Consiglio – Parla con chiunque – perché non pensino che sei muto – mi disse il nonno. – Ma una cosa: sta attento – che non ti trasformino in un altro (indio Humberto Ak’abal). Si può dir meglio la necessità della relazione umana nella salvaguardia dell’interiorità come identità personale?
Dice un proverbio arabo: «Fortunati e felici due amici che sanno camminare insieme senza parlare». (È l’esperienza del deserto e del nomadismo che fa fiorire un’autentica comunione umana nella solitudine e nel silenzio?). Mi viene in mente l’amicizia sobria e profonda che si salda tra compagni di gite alpine. Come dimenticare quel passo ritmato sul respiro, quegli occhi assorti nella conquistata contemplazione del paesaggio, quel silenzio che è l’eco d’una parola trasmessaci dal mondo circostante, un mondo nuovo di intatte meraviglie, quella mano che si stringe a un’altra mano quando il sentiero si fa improvvisamente più ripido e presenta passaggi difficili?
Non è con chiacchiere che si consola o distrae un morente. Non per questo si diserta il suo letto. Ricordo quali indelebili momenti di comunicazione essenziale siano stati quelli in cui ho potuto tenere silenziosamente nella mia la mano d’una persona cara poco prima di morire (inconsapevole pratica di “aptonomia”). «Quando non si può più fare nulla, tuttavia si può ancora amare e sentirsi amati, e molti moribondi, nel momento di lasciare la vita, ci hanno lanciato questo messaggio struggente: non ignorate la vita, non ignorate l’amore. Gli ultimi istanti della vita di un essere amato possono essere l’occasione di spingersi con lui il più in là possibile. Quanti di noi colgono questa occasione?» (Marie de Hennezel, psicologa e psicanalista operante nelle unità di cure palliative presso l’ospedale della città universitaria di Parigi, La morte amica, BUR 1996, p.17).

Parlare e dire
«Dire e parlare non sono la stessa cosa. Uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla [mi vengono in mente – pensiero maligno – tanti politici, in tempo di elezioni]. Un altro invece tace, non parla e può, col suo non parlare, dire molto» (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia 1990, p.198). Non c’è bisogno di scomodare filosofi come Heidegger, o Bergson, per sapere che parliamo tanto perché non riusciamo a dire quello che veramente importa e che vorrebbe sempre restare un segreto appena sussurrato, con discrezione e pudore, quasi chiedendo scusa. Sono forse poeti, mistici, bambini e… pazzi coloro che ascoltano più d’ogni altro il silenzio, senza confondere la parola con la chiacchiera.
«A dispetto di tutto e malgrado tutto, bisogna mettersi indefinitamente all’ascolto del silenzio di Dio, all’ascolto del Verbo che presiedette allo sbocciare del mondo, all’irrompere della luce, che dialogò con i profeti, che si fece Carne, e che poi, riallaciandosi alla sua misteriosa solitudine originale, si diffuse di nuovo in un grande silenzio… Il silenzio è una im-materia fissile, bisogna spezzarla a forza di ascolto e di interrogazione fino a provocare l’esplosione e l’effusione dell’immensa riserva di energia che contiene». (Sylvie Germain, Gli echi del silenzio, Edizioni Lavoro – Editrice Esperienze, 1998, p.108-9).
«Il raccoglimento (l’interiorità) non persegue un rifugio, ma una raccolta di forze per un migliore attacco; e non cerca il silenzio per il silenzio o la solitudine per la solitudine, ma il silenzio perché vi si prepara la vita e la solitudine perché vi si ritrova l’uomo» (E.Mounier, Che cos’è il personalismo?, Einaudi, Torino 1948, p.80).
«Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere» (L.Wittgenstein alla fine del suo Tractatus logico-philosophicus). Commento di P. Engelmann (in Lettere di Ludwig Wittgenstein): «Il positivismo sostiene che ciò di cui possiamo parlare è tutto ciò che conta nella vita. Invece W. crede appassionatamente che tutto ciò che conta nella vita umana è proprio ciò di cui, secondo il suo modo di vedere, dobbiamo tacere». E ancora: «Il linguaggio di W. è quello della fede non espressa in parole… Nel futuro gli ideali non saranno comunicati per mezzo di tentativi atti a descriverli, ma da esempi di un’appropriata condotta di vita» (cit. in D.Antiseri – M.Baldini, Lezioni di filosofia del linguaggio, Nardini ed., 1989, p.155ss).
«Mano nella mano»… Quella del nonno che mi conduceva a scoprire il mondo della mia infanzia, ma mi guidava anche a scrivere le prime lettere, i numeri: un doposcuola, una ripetizione che rinnovavano la “lezione” in classe. E ricordo la sua mano nella mia, a guidarmi a passi lenti (il passo del vecchio accordato, ritmato su quello del bambino) per magici sentieri lungo prode erbose di fossi e ruscelli mormoranti in mezzo ai brusii della campagna. Il nonno non era praticante, forse nemmeno “credente” nel senso confessionale del termine, eppure con la sua presenza silenziosa mi dava la sicurezza e la pace indicibile che comunica ogni fede vissuta. Lui era con me, mi accoglieva e valorizzava per quello che ero, diventava letteralmente il mio “compagno”: era lui a spezzarmi il pane, a offrirmi da bere alla sua umile mensa, in una stanzetta che mi sembrava contenesse il mondo intero.
… Quella della mamma nelle notti di paura degli allarmi aerei: avevo bisogno di sentirmi preso per mano, nel mio lettuccio a fianco del letto grande per comunicare silenziosamente, in segreta osmosi, con una sicurezza indubitabile.
… Quella dell’incoraggiamento in un momento difficile; quella del patto-promessa-fedeltà-amore, sigillato senza parole di troppo, parole che confondono.

Un professore di filosofia, un tipo strano, al liceo dedicava dieci minuti d’ogni lezione alla lettura di qualche opera letteraria straniera (per lo più in francese)… Ci metteva a contatto di autori veri (autorità da augere = far crescere), ci svelava anche il genio, l’interiorità delle lingue. Lezione che non avrei dimenticato. Tradurre da un’altra lingua divenne apssassionante esercizio di scoperta e ri-creazione, ascolto e trasmissione, interiorità feconda…

«Nella mentalità tecnico-scientifica qualcosa ha senso solo se ‘utilizzabile’, solo se ‘impiegabile’ per qualcos’altro. In questo ‘universo di mezzi’ non si dà un ‘fine’ che possa acquisire una sua rilevanza se a sua volta non assurge al rango di ‘mezzo’ per qualcos’altro» (U.Galimberti, in La Repubblica, 24 marzo 2000, La zona d’ombra della scienza).
Oggettività della scienza e utilità della tecnica non dicono nulla del vivente dell’uomo e della sua relazione. Il segreto d’ogni persona, la sua interiorità non è oggettivabile e strumentalizzabile, non è in vendita su nessun mercato. Il suo semplice silenzio sfida tutte le parole che di lei si possono dire.

L’interiorità permette il dono di sé nel rispetto dell’altro.
«Il rapporto (d’amicizia e d’amore) pienamente umano e liberante richiede autonomia e accettazione armonica della propria incompletezza. Per donarsi è indispensabile possedersi: solo se siamo sufficientemente integrati al nostro interno possiamo donarci a un’altra persona e amarla per se stessa. Ciò che non significa rinunciare allo slancio, al bisogno, all’emozione, ma guardare l’altra persona come tale: cioè nella sua unicità, nel suo mistero, nel suo futuro infinito» (Lilia Sebastiani, in Rocca, n. 6/2000, Un cuore indiviso).

Una povera coppia di anziani coniugi, seduti sulla panchina d’un parco in un pomeriggio autunnale: mano nella mano, in silenzio, godono della luce pallida, dell’ultimo tepore della stagione. Ogni parola è già stata detta, ogni passione esaurita, ogni tempesta placata. La vita è alle spalle, eppure tutta presente in quel silenzioso congiungersi delle mani, un gesto di pazienza, un tenue sorriso di ricordo e di speranza, un invincibile segno di fedeltà perseverante dentro e oltre ogni umana vicissitudine. Così parla del simbolo più concreto dell’amore umano un teologo ortodosso, A.Schmemann, in The world as sacrament.