Una frase infinita
Alex Zanotelli, ex direttore di Nigrizia, da dieci anni nelle baraccopoli di Nairobi, ha rifiutato di ritirare il premio Feltrinelli, 500 milioni assegnati dalla Accademia dei Lincei per «imprese eccezionali per valore morale e umanitario». Spiega Zanotelli che all’Africa non serve l’elemosina ma occorrono riforme strutturali, e denuncia il progetto Nafta for Africa portato avanti dagli Stati Uniti che segnerebbe il definitivo asservimento del continente africano all’imperialismo made in USA.
La notizia è apparsa fugacemente sui quotidiani di inizio estate, spazzata subito via dal Festivalbar, dalle dichiarazioni balneari di questo o quel politico e dai bollettini degli incendi dolosi e dei morti sulle strade.
Ma il gesto di Alex Zanotelli, il suo "piccolo rifiuto", meritava un po’ più di attenzione. Non era uno sgarbo alla generosa Fondazione Feltrinelli, ma la denuncia a tutta la cultura del Nord del mondo. Dispostissimo, il Nord, a tirare fuori qualche spicciolo, a lanciare dagli aerei medicinali e viveri, a organizzare tendopoli per i rifugiati di turno. Disposto anche (senza esagerare però!) a condonare qualche debito ai paesi poveri in debito di ossigeno. A una sola condizione: che tutto rimanga così come è. Sopra il Nord, e sotto, sempre più sotto – schiacciato, avvilito, spogliato, affamato, assetato, disperato – il Sud.
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La voce di Zanotelli sembra troppo debole, troppo isolata, troppo radicale per trovare ascolto in un mondo dove il capitalismo festeggia il suo incontrastato dominio.
Sembrerebbe «la fine della storia». Un impero globale dove – letteralmente – non tramonta mai il sole. E dall’alto del castello, scrutando con il binocolo fino all’estremo orizzonte, non si vedono eserciti nemici: solo carovane di pezzenti, diseredati e vagabondi, disarmati e indifesi.
Tutto sotto controllo, se non fosse per quella seccatura del "popolo di Seattle". Sono ancora un movimento confuso, non si capisce neanche quello che vogliono esattamente, sono in pochi e con pochi mezzi. Eppure riescono a rompere puntualmente le uova nel paniere.
Hanno fatto la loro comparsa nel novembre dell’anno scorso al vertice di Seattle del WTO (l’organizzazione del commercio internazionale) e da allora non hanno mancato un appuntamento. Quando i grandi della Terra si incontrano, ecco che arrivano con i loro cartelli e con i loro slogan. La polizia carica, le telecamere riprendono, e la festa è rovinata.
Hanno fatto casino anche alla Convention dei Repubblicani e dei Democratici (perché per il popolo di Seattle non c’è differenza tra Bush e Gore, e infatti non ce n’è). Poi sono andati a Melbourne, alla conferenza del Wef (il forum dell’economia mondiale). Prossimo appuntamento a Sidney, dove sono ancorati i megayacht dei grandi manager che vanno a vedersi le olimpiadi.
Insomma, non c’è pace per i ricchi. Dovunque decidano di incontrarsi i padroni del mondo, lo scalcagnato popolo di Seattle ci sarà.
E il guaio è che non sai come trattarli: «Volete un po’ di soldi? Perché se è quelli che volete ci possiamo sempre mettere d’accordo!».
Macché, l’elemosina non funziona. Hanno la testa dura quelli di Seattle.
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Tanto tempo fa lavoravo al sindacato. Ero nel Consiglio di Zona (adesso credo che non esista più), "operatore orizzontale", per dirla in gergo sindacale. Poi sono passato in categoria, ai tessili, "operatore verticale": cambio di ruolo e di postura.
Orizzontale, verticale, gabbie salariali, doppio livello contrattuale, impostazione vertenziale… se non maneggi bene il vocabolario sindacalese (linguaggio ancor più criptico del politichese) non puoi fare il mestiere del sindacalista. Oggi mi fa un po’ ridere, e mi faceva ridere anche allora.
Da tanto tempo ho smesso di lavorare al sindacato. Non era un brutto lavoro, ma nel piccolo mondo dei funzionari sindacali mi mancava l’aria. E soprattutto il sindacato mi sembrava già in crisi di identità: come puoi svolgere con coscienza un ruolo di rappresentanza mentre vivi quotidianamente la grande distanza che divide i lavoratori in carne ed ossa e l’istituzione sindacato?
Dopo quindici anni l’impressione e che il solco si sia molto allargato.
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Da mesi incontro solo persone che "sparano" sul sindacato. Ascolto gli sfoghi (in treno, al bar, sul traghetto per Ischia…) di persone incattivite contro quella che viene considerata come una istituzione uguale o peggio di tante altre, un pezzo del potere che «si mette d’accordo» con altri pezzi di potere.
Il solito qualunquismo, dico dentro di me. Vorrei rispondere che se non ci fosse stato il sindacato, oggi si lavorerebbe quattordici ore al giorno come ai primi del Novecento. Ma il sindacato non può vivere sulle medaglie di un glorioso passato. La vita è adesso. E adesso il sindacato rappresenta solo una parte dei lavoratori; i meno garantiti, i più flessibili, gli sfruttati, i sommersi, rimangono fuori dalla porta.
Allora ascolto e resto zitto. E mi viene la fantasia che bisognerebbe ricominciare tutto da capo. Dal basso, come cento anni fa le prime leghe operaie e contadine. Se è cambiato il lavoro, il consumo, il mercato, la società, il mondo insomma; anche il sindacato dovrà cambiare pelle.
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Sergio D’Antoni forse decide domani. Forse decide la prossima settimana. Forse entrerà nel Polo per rafforzare l’ala moderata. Forse invece si candiderà a guidare l’area cattolica dell’Ulivo. Forse creerà una associazione con il suo nome sulla targa. Magari fonderà un Terzo Polo tutto per lui. O forse un quarto, perché il terzo polo l’ha già prenotato Di Pietro.
Intanto – mentre ci pensa, e rilascia interviste, incontra politici dell’una e dell’altra parte, e corteggia e si fa corteggiare – continua tranquillamente a fare il segretario generale del secondo sindacato italiano. È potente, e nessuno gli dice niente.
Lui promette (e minaccia) che, quale sarà alla fine la sua scelta, si porterà dietro un bottino di voti, un bel pezzo dei tre milioni di iscritti al "suo" sindacato.
Io, e sono quindici anni che non lavoro più alla CISL, mi sono vergognato. Lui no.
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Il cimitero di Pove è come sospeso. Tra il verde chiaro degli ulivi, vicini tanto da abbracciarlo, e l’alta corona scura degli abeti. È un posto bello dove riposare dopo aver camminato e cercato tanto; dopo il tanto lavoro, le parole, gli incontri, gli abbracci.
Era bella anche la cucina della casa Gianfranco Del Giovane di Grajaù a Rio de Janeiro. Alla mattina c’era succo d’arancia e caffè italiano. E non si finiva mai: un altro caffè, un’altra sigaretta, e ancora una risata per cominciare il giorno.
Non me ne sarei mai andato dalla tua cucina. E invece te ne sei andata tu, lasciandomi nel mezzo di una frase infinita.