Il sindacato, il lavoro e il patto tra le generazioni

di Lizzola Ivo

«Ottimismo è forza di superare (nella rassegnazione di tanti),
è volontà di futuro (non lo lascia agli altri il futuro),
è pensare ed agire di fronte e con la prossima generazione
(ed essere sempre pronti ad andarsene ogni giorno)».
[Vincenzo Bonandrini]

Questi nostri anni della “crescita senza occupazione” sono stati preceduti e preparati da radicali trasformazioni materiali e immateriali, certo nell’economia ma in modo rilevante anche nello svolgersi quotidiano dell’esperienza del lavoro.
Tutti citiamo la crisi della grande impresa, la parcellizzazione della fabbrica, la sua “territorializzazione” prima e la sua trasformazione in rete “transnazionale”, e di unità semi-autonome collegate per via telematica dopo.
Il “lavoro diffuso” è anche fine del lavoro-mestiere: le abilità di un numero sempre crescente di lavoratori sono trasversali, abilità per i “lavori in movimento”, e tendenzialmente portano alla polarizzazione che vede da un lato percorsi professionali aperti, anche molto ricchi di competenze e autonomia, dall’altro una deriva da esecutività a esecutività, da dipendenza a dipendenza senza tutela e protezioni.
Certamente in questi anni, e nei prossimi ancor più, il lavoro è esperienza che distingue, differenzia, allontana tra loro sempre più divide e pone in competizione e conflitto le storie e le condizioni di vita delle persone. In modo particolare i giovani che solo di questo “lavoro diviso” fanno esperienza rischiano di rinchiudere le storie loro in aree non solo diverse, ma impermeabili, del mercato del lavoro: quella del lavoro “standard”, normato e tutelato, di lavoratori dipendenti o lavoratori autonomi; quella del lavoro “atipico” della flessibilità e precarietà del part-time, del tempo determinato, della formazione-lavoro; quella del lavoro “sommerso”, irregolare e illegale, senza alcuna tutela.
Questa realtà di “impermeabili” diversità rischia di mettere in crisi uno degli elementi forti della tradizionale cultura del lavoro e del sindacato che vedeva e voleva il lavoro come elemento centrale di inclusione sociale. Oggi il lavoro è esperienza di inclusione per alcuni di esclusione per altri!
Inclusione o esclusione (ripeto: in modo tutto particolare per i giovani) dalle dimensioni del rispetto, dell’autostima; dell’indipendenza economica, delle opportunità formative; della cittadinanza (godimento di servizi, peso sociale e politico…).
Il lavoro torna a differenziare economicamente, culturalmente, socialmente.
Il Sindacato è chiamato a fare i conti con dimensioni inedite di rappresentanza (i lavoratori sono sempre più diversi; la dipendenza e lo sfruttamento nelle esperienze di lavoro si vivono in termini nuovi, spesso in situazioni di autonomia; …) e con una tutela che è sempre più promozione, progetto sociale, lavoro per costruire speranza e corresponsabilità, battaglia culturale perché siano considerati aspetti antropologici, di senso e qualità del lavoro umano (da parte dei lavoratori stessi).
Come rappresentare e tutelare accompagnando lo sviluppo di biografie personali? Come fare assumere l’esperienza del lavoro come oggetto di cura di soggetti diversi sociali e istituzionali?

Lavoro e cittadinanza

Il nesso tra lavoro e cittadinanza si pone in termini nuovi. La stagione passata (del “non più”) ha visto il lavoro essere fondamento per la costruzione dei diritti e dello stato sociale in Europa: il movimento dei lavoratori, prevalentemente attraverso le organizzazioni sindacali, ha rivendicato e ottenuto riforme e redistribuzione della ricchezza da soggetto di partecipazione politica. Il lavoro è stato riconosciuto come diritto sociale.
Lavorare ha fatto accedere nei decenni del recente passato, i giovani, le famiglie dei lavoratori a beni e servizi fondamentali e a opportunità formative. Nei nostri anni le trasformazioni della costituzione materiale dell’esperienza lavorativa, dell’economia, della tecnologia hanno fatto “slittare” il lavoro nella sfera delle “opportunità individuali”: ciascuno accede al lavoro secondo abilità, merito e fortuna nello sviluppo di una vicenda individuale, prevalentemente solitaria. Ed il lavoro, appunto, torna ad essere fonte di disuguaglianza ed esclusioni. Anche perché collocazioni e diritti vengono definiti dall’abilità e dagli strumenti con cui ci si muove individualmente sul mercato del lavoro, in una miriade di micro-contrattazioni, per acquistare il bene-occupazione. Il lavoro, si potrebbe dire, è tornato ad essere “diritto civile”.
Specie tra i giovani si va facendo strada un legame nuovo e importante tra l’esperienza umana del lavoro e la possibilità, l’attesa di autonomia. La diffusione del lavoro autonomo, in proprio, il richiamo a maggiore autonomia e iniziativa ai diversi livelli dell’organizzazione del lavoro nell’impresa, ne sono la “base materiale”.
Ma il crescere di forti identità del distacco, fragili e aggressive, che dunque trovano senso e identità prevalentemente nel conflitto e nella competizione con altri, la scarsissima attitudine e cultura per un “agire coalizionale” (Bonomi) ne rappresentano spesso la costituzione etica e psicologica.
Al punto che potremo usare anche per una parte di queste biografie lavorative e professionali giovanili l’espressione di “biografie dell’abbandono”. Nel duplice senso di itinerari lasciati a sé e costruiti nella durezza della sorte individuale e solitaria, e di percorsi che tagliano il più possibile rapporti di dipendenza, cooperazione, “socialità”.

Autonomia

C’è una forte insistenza a centrare l’attenzione su questo termine, ad assumerlo, nella lettura dei percorsi biografici, in maniera “forte”, e a cogliere le incertezze e le possibili dipendenze (da persone, da situazioni) in maniera solo negativa.
Si percorre l’illusione della non-dipendenza (ma ogni individuo dipende da ed è preceduto da) cercando a tutti i costi la via dell’indipendenza, non assumendo in tali percorsi le necessità di accompagnamenti, di prese in cura. È paradossalmente un restringere l’autonomia in spazi ristretti, gestiti in solitudine, talvolta con ansia.
Chi scivola tra abbandoni e solitudini è “obbligato” ad elaborare senso, significati, “foreste di segni”, a costruire una trama di spiegazioni di fronte alle interruzioni della possibilità di accesso a “vite possibili”. È la ricerca di disegnare paesaggi dell’anima: paesaggi in cui siano presenti i sensi di incompiutezza e di limite che ogni biografia porta con se, in cui le assenze e le mancanze siano anche uno spazio di incontro con l’altro, luogo di ricostruzione comune di senso, di responsabilità reciproche che significano legame e relazioni. A volte i paesaggi restano fantastici, della separatezza; o bui e inquietanti.
Il lavoro, qualunque lavoro accettato o subito a qualunque condizione di extralegalità o illegalità, può illudere di far recuperare senso, ruolo, appartenenza.
Disposti ad accettare gregarismi o a sopportare solitudini e rischi, incapaci di chiedere rispetto o agire con resistenza e vera contrattualità.
Una società che ha puntato sull’individualizzazione pare aver messo tra parentesi sempre di più il riconoscimento dei legami di dipendenza, dei legami di dipendenza reciproca, della comunicazione e anche del conflitto, come luogo per costruire significati e significati condivisi.
Questo “finire in dipendenze” solitarie e “della resa”, chiede a chi viene da una storia di tutele e di solidarietà come il Sindacato, di svelare come la dimensione della dipendenza reciproca e del limite sia una delle dimensioni fondamentali dell’umano, della relazione sociale, della relazione educativa. La dimensione dell’essere non solo “con”, ma anche “grazie a”, e “per” altri. Svelandolo nella concretezza di progetti territoriali, intergenerazionali, formativi e di cooperazione tra soggetti diversi e diversi territori.

Dipendenza reciproca

Quale luogo più del lavoro e del sindacato è luogo chiamato a recuperare (per adolescenti che si provano in responsabilità, per adulti che devono riprogettare la biografia lavorativa, per famiglie che si preoccupano di dar senso a futuro a fatiche e risparmi) questa scoperta dei legami di dipendenza reciproca?
Nel legame di dipendenza reciproca c’è anche la scoperta del proprio limite, della propria fragilità, del bisogno dell’altro, e del rapporto tra limite e possibile protagonismo. È come se solo fare i conti con la dimensione della sofferenza e del limite permettesse di ripartire nella costruzione di significati, per le proprie parole, per i propri gesti, nella costruzione del contesto entro il quale provare a scegliere.
Perché alto è il rischio di una polarizzazione nuova, e di nuove dipendenze, dentro la realtà del lavoro, con esclusione o marginalità di professioni residuali o dal mercato incerto, di lavoratori autonomi “fragili”, di lavoro sommerso o incapace di riqualificarsi.
Servono cultura e progetti concreti. Ruoli “catalizzatori” sui territori. Riforestazione per la tenuta di “energie di legame» nei contesti territoriali di vita e/o di quelli relazionali che legano contesti diversi e distinti. Il sindacalista può essere una delle poche figure di “dirigente sociale”.

(1 – continua)